Lutto socialmediaticoIl selfie della propria morte

Il selfie della propria morte

Difficile stabilire se i selfie sono un fenomeno così di moda da coinvolgere anche il papa, o se la tendenza sia stata rilanciata dalla partecipazione di Bergoglio agli autoscatti dei papaboy. Probabilmente è vera la prima tesi, ma ora che la pratica ha raggiunto simili vertici di partecipazione occorre escogitare qualcosa che sorpassi i confini ultimi dello choc per fare ancora meglio, per destare di nuovo l’attenzione.

Emma Keller attribuisce su The Guardian a Lisa Adams l’esecuzione di questo passo, interpretando i contributi dell’ultimo anno sul suo profilo Twitter come un selfie della sua agonia srotolato nel tempo. La descrizione analitica del progresso del cancro al seno, e delle sofferenze fisiche che esso comporta, compongono l’affresco della nuda vita contaminata dal dolore, senza futuro, un autoscatto della propria morte prolungato per mesi. Il Trionfo della morte che nel tardo Medioevo infestava le pareti delle basiliche e degli edifici pubblici, ha traslocato sulle pagine elettroniche del microblog, in formato personalizzato.

Dopo aver dismesso la maschera del teschio e il paludamento della falce, del mantello e del destriero, la morte si mostra con il volto della sentenza ospedaliera, delle cure palliative, della sintomatologia clinica e soggettiva, dettagliata, precisa, spietata. Emma Keller fa i conti con questa cronaca della fine in maniera persino poco delicata, snocciolando le cifre dei messaggi postati da Lisa Adams nei mesi e nei giorni di quello che lei – la Keller – legge come la fase terminale della vita. 165 mila nell’ultimo anno, più di 200 nell’ultimo giorno prima della pubblicazione dell’articolo il 9 gennaio. Tanti, troppi, secondo la giornalista. Questa anatomia della morte imminente, che non si decide di mettere a tacere il profilo di chi ha già subito la sentenza capitale da parte delle analisi mediche, scuote di ansia i lettori. Non sarebbe meglio rassegnarsi? Non si dovrebbe rispettare l’etica della decenza e attendere la fine con la dignità del silenzio? Se anche il funerale non è ancora stato celebrato, sarebbe delicato comportarsi su Twitter come la pratica fosse già stata chiusa.

Zeynep Tufekci sostiene che ribolle un po’ troppa arroganza in questa richiesta. Molti lettori del Guardian hanno condiviso il suo punto di vista, tempestando di messaggi i social media e lo spazio per i commenti sul quotidiano. Infine la testata ha ceduto e ha chiuso gli accessi al pezzo della Keller. Il fatto che un giornale ritiri una notizia perché i lettori la assaltano di critiche, e l’autrice rifiuta il dialogo con loro – è di per sé una notizia. Tufekci contesta sia il metodo, sia l’atteggiamento dell’autrice.

In prima battuta la Keller non si è accorta che la vittima della sua analisi non è una malata terminale. L’adozione delle cure palliative non è un sinonimo di «ultima settimana di vita», o di «ultimo mese». Le metastasi del tumore al seno producono sofferenza ma non la morte, che sopraggiunge comunque in modo inevitabile quando la malattia intacca altri organi. La terapia del dolore è una prassi che serve ad assicurare una qualità della vita sopportabile per chi sta subendo il decorso inarrestabile del cancro. Eppure la Adams alimenta il suo profilo Twitter da sette anni, e solo nell’ultimo la sentenza clinica è stata pronunciata. Il suo scopo non è arrecare offese al garbo della comunicazione su un information network molto frequentato dai giornalisti a caccia di notizie, ma offrire una documentazione personale sulla storia medica collegata al tumore al seno, sui rischi e sulle sofferenze che questa comporta.

Ma soprattutto Tufecki contesta l’interpretazione con cui la Keller assegna implicitamente ai social media, e a Twitter in particolare, un ruolo di rassegna stampa, tutta dichiarativa , levigata, senza l’incrinatura del coinvolgimento personale, senza la ricerca del dialogo, senza il desiderio del coinvolgimento. Il soggetto che parla nei post del microblog è un oggetto tra gli altri, è vincolato alle norme della prestazione informativa, segnala una notizia che viene stimata sulla base della sua completezza, velocità e rilevanza. Nient’altro da dichiarare alla dogana.

Ma Twitter non è questo, e nessuno degli altri social media. È una distorsione dei giornalisti, che per di più sovrascrivono le loro ansie di frenesia nozionistica, di misurazione quantitativa dell’interesse, di contrazione dei tempi di produzione, sul decorso delle malattie altrui. Il pezzo della Keller è una forma di sintomo isterico, in cui il teatro psicanalitico è inscenato però sul corpo davvero malato di qualcun altro. Un bel risparmio in parcelle dallo specialista.

L’assunto che viene difeso da Tufecki è che i social media siano anzitutto conversazioni, e solo in seconda battuta possano essere convocati a svolgere incarichi secondi e terzi, come sostituire gli inviati in Pakistan per controllare modi e tempi dell’uccisione di Bin Laden, o verificare il significato corretto della sentenza sui matrimoni gay della Corte Suprema, o seguire lo sviluppo delle Primavere Arabe. Con il rifiuto di rispondere ai lettori critici nei confronti del suo pezzo, la Keller ha rivendicato la sua esegesi di Twitter come un luogo in cui si enuncia con voce stentorea il contenuto del proprio lavoro urbi et orbi; poi ci si ritira nel pensatoio per scarabocchiare il prossimo pezzo, ignorando la reazione sia dell’urbe sia dell’orbe. Un adattamento moderno della formula uno-a-molti della comunicazione televisiva o giornalistica dei bei tempi andati, senza nemmeno il diritto di replica da parte degli utenti.

Può essere ingeneroso estendere questo rapporto con i social media e questa concezione della relazione con i lettori all’intera classe dei giornalisti. Si deve però ammettere che la categoria fatica a riconoscere l’estinzione del suo potere di orientamento della comprensione del mondo per tutto il pubblico, e di dettatura dell’agenda degli interessi e delle preoccupazioni collettive.

Ma al contempo sono valide anche le domande di direzione opposta. Cosa trasforma la conversazione su Twitter in un progetto interessante per una persona che sa di poter coltivare un’attesa di vita di breve, brevissimo termine? Quale promessa o quale desiderio la guida a ripetere instancabilmente il gesto dell’autosservazione, della dissezione del proprio dolore? Cosa si trova nello specchio della sofferenza nel congegno del profilo su Twitter, della sua circolazione, della rifrazione negli occhi e nelle frasi dei follower?

Il linguaggio di Twitter è spoglio, con poche sfumature, al limite della dichiarazione protocollare dei vecchi positivisti. Ma forse il formulario lapidario del microblog permette di riattivare le strutture dello scambio simbolico con cui la morte riaffiora dalla censura in cui è stata rinchiusa dalla clinica e dal potere medico. L’estinzione della vita si riscatta dal marchio di oscenità che le ha imposto di scomparire dalla vista e di essere consegnata alla decisione dello sguardo scientifico. Torna ad essere un’esperienza condivisa dalla comunità, un valore vissuto direttamente.

Sarebbe bello poterlo pensare. Ma è più probabile che dal punto di vista dei follower anche questa sia l’occasione per illudersi di aver conosciuto una persona limitandosi ad aver sottoscritto un feed, senza nemmeno aver fatto la fatica di muovere un passo per andarla a incontrare di persona. Non esiste alcuna verità senza responsabilità del tempo: senza investire in modo esclusivo e continuato la propria dedizione per qualcuno o qualcosa, tutto rimane sostituibile con tutto, e ogni cosa convertibile in qualunque altra.

Ma il versante più serio della questione è l’ossessione documentaristica dell’agonia. È la nevrosi dei social media, dei cosiddetti nuovi media in generale, la conservazione di tutto, la registrazione di tutto, la trascrizione di ogni istante della vita. La sensazione che la verità coincida con l’archiviazione di tutti i dettagli, con l’onniscienza burocratica di ogni fatto dell’esistenza. Il tracciamento paranoico di ogni evento, l’accumulo di ogni inezia, la capitalizzazione di tutti i dettagli, manifestano i sintomi psicotici di una civiltà che le strategie del web dalla memoria infinita, da Google a Facebook, da Twitter all’NSA, ci hanno abituato a considerare normale. Il documento si trasforma in monumento, e in monumento funebre nel caso drammatico di Lisa Adams. Ma come insegna Simmel, sono il segreto, la lacuna, che permettono di costruire progetti per il futuro, e di generare una storia che li renda coerenti con il passato. È la privacy che disegna la personalità degli individui agli occhi degli altri e ai propri. Senza le rimozioni, senza i silenzi, non è possibile la libertà.

La vita rimane sommersa sotto la massa inamovibile delle contingenze, delle sciocchezze, delle distrazioni che affollano l’esistenza di ciascuno di noi, in misura molto più ingombrante degli attimi significativi. La materia di cui si compongono i rifiuti della nostra esperienza finisce per soffocare il senso che possiamo restituire alle nostre azioni, come le città seppellite dall’immondizia. La banalità può essere redenta solo dalla sua cancellazione.

Nella contorsione dell’anima di Lisa Adams che soffre sotto il peso della testimonianza irrevocabile delle tracce del suo dolore, di tutti gli istanti della sua passione, siamo celebrati anche tutti noi: noi che immoliamo la nostra libertà sui social media, per eternare nella memoria indelebile del silicio il monumento della nostra sostituibilità.

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