Qualcosa sta cambiando: i giornalisti si stanno chiedendo cosa sia l’influenza. Anche se siamo a febbraio, non stiamo parlando del virus invernale che costringe la gente a letto con la febbre e la tortura del brodo caldo; stiamo discutendo proprio dell’effetto che le testate di quotidiani e periodici sono abituate a stimare come una loro dote naturale. Hegel definiva la preghiera del laico la lettura dei giornali al mattino: da quando questo ruolo si è imposto in Europa e in America, le dispute hanno sempre insistito sui nomi o sulle testate cui si sarebbe dovuta attribuire maggiore o minore autorevolezza, ma senza mai mettere in discussione l’assioma che l’influenza fosse il carattere costitutivo della comunicazione giornalistica.
Negli ultimi anni gli editori stanno scoprendo la loro natura mortale. La loro funzione è collegata ad una struttura sociale, e soprattutto ad un ecosistema di forme economiche, ideologiche e tecnologiche, che sono state almeno in parte rovesciate negli ultimi vent’anni. In particolare, la condizione di scarsità che caratterizzava la struttura della comunicazione uno-a-molti si è trasformata nel suo esatto opposto, il fenomeno che viene etichettato come information overload, sovraccarico di informazioni. Libri, riviste cartacee, televisione, cinema, radio, fumetti, erano veicoli che imponevano una selezione dei contenuti da proporre il pubblico: divulgare tutto sarebbe stata una soluzione non sostenibile dal punto di vista economico. E anche dal punto di vista ecologico, per lo meno per l’ambiente della cerebrale.
Oggi l’ecologia della mente è un affare da Greenpeace o da WWF, visto tra l’altro che ogni cervello con un computer collegato in Rete contribuisce con una propria dose di spazzatura all’inquinamento informativo globale. Visto che il dibattito è nato in America, in mezzo a tutto questo rumore comunicativo il problema dell’influenza è vissuto come un’interrogazione sui metodi e sui valori che occorre adottare per misurare l’autorevolezza di persone e testate. Se tutti parlano, commentano, testimoniano, divulgano, quelli più ascoltati saranno i leader cui stiamo dando la caccia.
Quanto è grossa la mia influenza? Quanto è estesa? È più imponente della tua? «Crediamo strenuamente che sei quello che misuri», così comincia l’intervento su Upworthy che illustra i criteri attraverso i quali la testata vuole proporre un nuovo criterio per la descrizione di ciò che il pubblico ha giudicato importante durante la navigazione. L’inseguimento del parametro numerico giusto è così accesa che ci si dimentica persino dell’oggetto del dibattito. Le pagine viste esibiscono una misura numerica talmente chiara da far dimenticare che il loro valore economico in termini di inserzioni pubblicitarie continua a scendere. Per converso, le startup editoriali che fioriscono sulla rincorsa alla viralizzazione estrema dei contenuti sembrano attingere fertilizzanti proprio dall’immondizia che intasa lo spazio logico dell’informazione e il tempo per assimilarla: gattini e pornografia più o meno esplicita, catturano abbastanza interesse da farsi per farsi strada da nodo a nodo attraverso i nodi della rete sociale. BuzzFeed ha aperto la strada, ma ViralNova mostra dove può condurre un piglio spregiudicato nello sfruttamento dell’attenzione istintiva.
Il primo terreno di discussione celebra la resa dei giornali come punto di accesso del pubblico all’informazione. Il guanto della sfida è stato gettato da re/code il 2 febbraio, subito ripreso da The Atlantic, che ha evidenziato come tra i due principali soggetti del giornalismo digitale contemporaneo, Google e Facebook, il secondo si laurea come il maggiore veicolo dell’informazione per il pubblico. Google e Facebook? A chi si aspettava di veder scorrere nomi come Time, o New York Times, o Wall Street Journal, subito dopo l’enunciato «the Most Important Entity in Web Journalism», tocca la triste notizia che anche la rocca più alta è caduta. La fonte citata da re/code per la cronaca della sfida tra i giganti è BuzzFeed – o meglio, il soggetto della discussione è BuzzFeed, dal momento che il primato di Facebook viene misurato sull’andamento delle fonti di traffico verso il sito della testata. L’andamento dei lettori portati sulle pagine di BuzzFeed da Google e da Facebook è mostrato nel grafico qui sotto.
BusinessInsider ha sollevato le sue perplessità intorno all’affidabilità di BuzzFeed come campione di ciò che capita in questo periodo agli editori nei loro rapporti con le sorgenti di traffico. Dopo gli aggiornamenti introdotte da Facebook sulla visibilità spontanea dei contenuti media e in vista dell’uscita dell’app di aggregazione delle notizie Paper, guarda caso BuzzFeed è l’unica testata ad aver incrementato gli accessi dal social network. In due mesi Upworthy ha perso circa il 48% degli accessi, mentre ViralNova ha registrato un calo simile tra la metà di novembre e la metà di dicembre; nello stesso periodo BuzzFeed è crescito a gonfie vele, raddoppiando il numero di utenti in ingresso da Facebook. A cosa dobbiamo questo successo fenomenale? Secondo Nicholas Carlson a una decisione molto semplice: obbedire alle logiche imposte da Zuckerberg e acquistare traffico da Facebook.
BuzzFeed comincia a profilarsi come un testimone inaffidabile per le misure, ma significativo per la comprensione dell’assetto strategico delle testate giornalistiche che si affidano ancora al destino di essere lette. L’editore acquista tramite i canali promozionali dei giganti della ricerca e dei social media visibilità per le proprie pagine, in modo da poter vendere la comunicazione pubblicitaria che transita su quelle stesse pagine. A dir poco, tortuoso. Ma la mente nuova dell’editore si rivela tortuosa e bizantina anche nella divulgazione di numeri e misure. La valutazione riferita da re/code e amplificata da The Atlantic viene confutata da Define Media Group una società di consulenza marketing che gestisce l’analisi dei dati per molti dei network di informazione globale quotati negli stock Blue-Chip. L’analisi viene condotta su un panel di 48 miliardi di pagine viste e di 10 miliardi di visite effettuate nel corso del 2013 (contro la generica audience di 300 milioni di persone vantata da buzzFeed), e le conclusioni attribuiscono ai motori di ricerca una capacità di canalizzazione del 41% delle visite, contro il 16% dei social media e un 43% di traffico diretto. La sovranità dei media e dell’informazione appartiene allora ai motori di ricerca; ma come la esercitano questi oscuri signori?
Danny Sullivan è un personaggio che ha molto da insegnare sui dispositivi di ricerca, e su Google in particolare. Secondo il suo punto di vista l’antitesi su cui si concentra la controversia tra i sostenitori del primato dei motori di ricerca e quello dei social media deriva dalla scarsa comprensione della realtà digitale. Gli aggiornamenti che si sono succeduti nel software di Google dal 2011, Panda, Penguin, Hummingbird, sono tutti rivolti ad una sostanziale assimilazione dei segnali della reputazione sociale nell’algoritmo di calcolo processato dal dispositivo di risposta. I meccanismi di interpretazione semantica e l’interesse con cui il motore tenta di valutare l’autorevolezza attribuita in Rete al creatore del contenuto, liberano i giornalisti dai vincoli sintattici e lessicali richiesti dalle tecniche SEO degli scorsi anni.
Sullivan rimprovera ai professionisti dell’informazione la loro reticenza ad adattarsi alle regole di ottimizzazione per i motori di ricerca della loro produzione editoriale. La loro noia nei confronti delle regole in fondo è un rifiuto di comprendere le esigenze di lettura degli utenti e i loro interessi tematici. Il peggio quindi deve ancora arrivare. Se l’influenza si misura offrendo al pubblico quello che si aspetta, nel futuro prossimo non può che ingorssare la valanga di gattini, doge, fotogallery demenziali, curiosità da almanacchi ottocenteschi, gossip e pornoragazzine: la frana punterà sempre più verso il basso, e abbruttirà sempre di più l’universo digitale conosciuto. È questa la profezia funesta di David Carr sulla bolla dei nuovi giornali online.
Gli algoritmi di Google e quello di Facebook vestono i panni del vero direttore editoriale della Rete. Sono loro che conoscono passioni e stili di consultazione degli utenti: sono loro che fissano i canoni di professionalità dei giornalisti. Sono loro a misurare l’influenza delle testate, in termini di visibilità, reputazione, numero di pagine viste. Sono sempre loro a potersi arrogare il diritto di prezzolare questa autorevolezza, di venderla, scambiarla, ritirarla, regalarla. Hanno diritto di bando sui domini dei media, ed esercitano un privilegio di vita e di morte su tutto quello che abita le loro terre.
Senza limitare i parametri connessi al traffico e alle pagine viste, Upworthy annuncia la necessità di accrescere il numero di parametri da sottoporre ad esame per ottenere un ritratto più fedele dell’influenza. Il sito, lanciato da Eli Pariser nel 2012, in meno di due anni è stato in grado di attirare la cifra record di 88 milioni di visitatori unici al mese (il New York Times viene frequentato da 30 milioni di utenti unici) attraverso un meccanismo di reclutamento del pubblico tramite la viralizzazione sui social media. Secondo la redazione, il merito della testata infatti si deve evincere dal tempo effettivo di attenzione che ogni contenuto pubblicato riesce ad evocare dagli utenti. Non ci si può limitare a calcolare questa durata con l’intervallo trascorso dal lettore sulla pagina, e soprattutto non si possono seguire le regole rispettate dai software di analisi tradizionali.
Nello sforzo di identificare i segnali che permettano di imprigionare il vero significato dell’attenzione su un contenuto, resta l’ambiguità sulla nozione di influenza intorno a quali debbano essere le sue caratteristiche essenziali. Se la sua proprietà più importante sembrava essere quella veicolata dal suo tratto performativo, che costringe l’interlocutore a fare qualcosa di atteso, le metriche che la tracciano sembrano tutte allinearsi nella direzione opposta – ovvero di costringere i giornali a organizzarsi per produrre quello il pubblico esige: contenuti preformattati e predigeriti, in modo da non richiedere fatica, impegno, sforzo. Per converso, la riduzione di risorse, spazio e visibilità che viene offerta alle inchieste dedicate alla politica e all’economia limita sempre più la domanda nel pubblico di un’offerta informativa di questa complessità.
Forse avevo torto nella prima riga. Forse l’influenza di cui stiamo parlando è una malattia, un’epidemia che minaccia la salute della mente e della società; forse questa influenza è un sintomo dell’inverno del nostro scontento per i media online.