In Medio Oriente c’è un Paese di cui i media non parlano quasi mai: l’Oman, il sultanato silenzioso. «Qui ci sono paesaggi meravigliosi, mare e deserto, spiagge e montagne. – racconta a Linkiesta un espatriato che vive a Mascate, e preferisce restare anonimo – Alcuni definiscono l’Oman il “sultanato eremita”, ma io qui ho ritrovato me stesso».
Un Paese di luci e ombre, l’Oman. Nel XVIII secolo era la maggior potenza del Golfo Persico, e la sua influenza commerciale (e militare) si estendeva persino alla costa pakistana e a quella dell’Africa orientale. Poi il declino, e con esso il protettorato britannico. Oggi la rinascita, senza troppi clamori. Perché il sultanato fa di tutto per mantenere un profilo basso. E barcamenarsi tra le potenze rivali della regione, in primis Iran e Arabia Saudita. Non a caso non fa nemmeno parte dell’Opec, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, da sempre arena degli scontri tra Ryad e Teheran.
E dire che di idrocarburi l’Oman ne ha. Secondo l’Oil & Gas Journal, la sua produzione di greggio è la ventiduesima al mondo, e le sue riserve provate di petrolio ammonterebbero a 5,5 miliardi di barili. Importante anche il settore del gas: è il quinto produttore mediorientale di gas naturale, che vende (al pari del petrolio) soprattutto a Cina, Giappone, Taiwan e altre nazioni asiatiche.
Stabilità. È il mantra di questo Paese da quasi 4 milioni di abitanti e con un Pil pro capite (a parità di potere d’acquisto) superiore a quello italiano. Che si trova in una posizione geopoliticamente scomoda: a ovest c’è l’Arabia Saudita, vicino ricco e potente da quasi 30 milioni di abitanti, e lo Yemen sempre instabile; a nordest, oltre il mare, si profilano minacciose le coste dell’Iran.
In effetti la prossimità dell’Oman al Mar Arabico, al Golfo Persico e soprattutto allo Stretto di Hormuz (la “giugulare dell’Occidente” dalla quale passa il 40% del gas e del petrolio mondiali) costringono Mascate alla cautela. “L’Oman è l’amico di tutti e il nemico di nessuno”, si dice in Medio Oriente. Però alcuni sono più amici di altri: gli ex-dominatori britannici ma soprattutto gli americani, veri garanti della sicurezza del sultanato.
Pur essendo membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), l’Oman è da sempre diffidente verso Riyad, e le sue aspirazioni egemoniche. All’estraneità omanita contribuisce poi il fatto che il sultanato è ibadita, una corrente islamica diversa sia da quella sunnita che da quella sciita, nata agli albori dell’Islam e attualmente religione maggioritaria solo in Oman.
«La cultura ibadita è l’elemento caratterizzante dell’Oman, anche per definire il rapporto fra religione e società. – dice a Linkiesta Nicholas Ridout, co-autore di Oman, Culture and Diplomacy (Edinburgh University Press) – Il Paese ha una lunga tradizione di tolleranza, che si riflette anche nell’approccio conciliante che mantiene nelle relazioni diplomatiche».
La capacità di coniugare tradizione e modernità, sviluppo economico e progresso sociale, sembra essere la principale dote di un Paese aperto ai traffici globali, e consapevole del bisogno di diversificare l’economia, per scampare all’eccessiva dipendenza dalla produzione di idrocarburi (che valgono circa il 40% del Pil).
Secondo quanto riferito a Linkiesta da Ferdinando Fiore, direttore dell’ufficio di Dubai dell’Ice, «l’Oman è di sicuro una realtà interessante per gli investitori esteri, e in particolare per le aziende italiane. Soprattutto alla luce della politica di diversificazione dell’economia nazionale adottata dal governo. Mascate infatti sta puntando con decisione sullo sfruttamento del gas naturale per lo sviluppo di un’industria petrolchimica e siderugica nazionale, la realizzazione di importanti progetti infrastrutturali, la promozione del settore turistico e immobiliare».
I settori di maggior interesse per gli imprenditori italiani in Oman sono l’edilizia, l’energia (solare ed eolico inclusi), la fornitura di macchinari e attrezzature industriali, la costruzione e manutenzione di impianti per il trattamento delle acque e dei rifiuti. «Ma sono assolutamente degni di attenzione anche il comparto sanitario e biomedicale, il settore turistico e immobiliare, l’agricoltura e la pesca. – continua Fiore – Inoltre i prodotti italiani, specie quelli alimentari, i mobili e i capi di abbigliamento, sono molto apprezzati in Oman, ma non sempre sono di facile reperibilità. Quindi potrebbe essere anche questa una buona opportunità di business per le nostre aziende».
Non solo. Come negli Emirati Arabi o in Egitto, anche in Oman sono state create diverse zone franche che offrono importanti agevolazioni alle imprese straniere interessate a investire nel Paese. Ancora, spiega Fiore, «la normativa fiscale sulle società è particolarmente vantaggiosa, i diritti doganali sono quasi tutti pari al 5% e non ci sono imposte sul valore aggiunto né sulle persone fisiche. È possibile costituire società a capitale misto con quota minima omanita pari al 30%, e un capitale sociale minimo di circa 300.000 euro».
Infine, sempre per incoraggiare gli investimenti stranieri, l’Oman ha firmato accordi per evitare la doppia tassazione con molti Paesi, compresa l’Italia, e ha siglato vari accordi bilaterali per la protezione degli investimenti.
Tutte queste misure sono state adottate sotto la guida di un unico uomo, il sultano Qabus bin Said al Said. Monarca assoluto dell’Oman, è davvero impossibile non menzionarlo quando si parla di Oman. Perché ogni cosa, nel sultanato, è decisa da Qabus: l’Oman è lui e lui è l’Oman. Nato nel 1940, ed educato prima in India e poi alla leggendaria accademia militare di Sandhurst, nel Regno Unito, è un grande appassionato di musica classica, e per il suo minimalismo sulla scena internazionale è stato paragonato dal reporter americano Robert Kaplan a certi leader scandinavi.
In realtà non è proprio così. La politica estera di Qabus è senz’altro prudente e pragmatica, ma in patria la musica cambia. La festa nazionale cade il giorno del suo compleanno (18 novembre), mentre il 23 luglio, primo giorno del suo regno, è festeggiato come il Giorno della Rinascita. Ed è così da più di quarant’anni. Ovvero dal 1970, quando un Qabus trentenne rovesciò suo padre con un golpe bianco, conquistando il potere e varando (con il denaro degli idrocarburi) un importante programma di modernizzazione del Paese.
«Il suo governo è molto diverso da quello delle altre monarchie del Golfo. – dice a Linkiesta Marc Valeri, direttore del Centre for Gulf Studies presso l’Università di Exeter e autore di Oman: Politics and society in the Qaboos-State – Nel Paese non c’è una famiglia regnante, un principe o un primo ministro. C’è solo il sultano». Che ha sì istituito un parlamento bicamerale, e permesso agli omaniti di eleggere i membri della camera bassa. Ma controlla le nomine di quelli della camera alta.
«Si tratta di un regime autoritario. – continua Valeri – Certo, non lo si può comparare all’Egitto di Mubarak o all’Algeria di Bouteflika. Dal 1975 sono state uccise davvero pochissime persone per motivi politici». Rimangono però pesanti restrizioni alla libertà d’espressione, e non è possibile creare un partito politico o un sindacato indipendente. «È molto difficile criticare il sultano, anche nel modo più blando».
L’Oman è «un Paese contraddistinto da una straordinaria leadership, insieme a una buona amministrazione e alla supremazia della legge grazie allo sviluppo di istituzioni di governo forti. Il sultano è personalmente interessato nella forte difesa e promozione della posizione delle donne, e nell’assicurare che le risorse nazionali siano distribuite equamente in tutto questo aspro Paese.”
A dirlo non è una patinata brochure del governo omanita, ma un cablo del 2010 inviato a Washington dall’ambasciata americana a Mascate. Il cablo sottolinea poi che «un tempo l’Oman era conosciuto come un Paese segnato da povertà, malattia e analfabetismo. Negli ultimi quarant’anni, pur ancora in via di sviluppo, si è trasformato in una nazione governata dal diritto e dalle istituzioni, e con alti livelli di istruzione, salute e attenzione a cittadini e residenti».
In realtà un giudizio così generoso non è del tutto disinteressato. Come riconosce la stessa ambasciata, «il sultanato è un alleato militare affidabile e un buon partner commerciale degli Usa. Senza fanfare, l’Oman offre molti contributi positivi alla pace in Medio Oriente e alla stabilità regionale, e al miglioramento delle crisi umanitarie».
È senza dubbio un sultano astuto, Qabus. Instancabile mediatore tra Washington e Teheran, ha fatto del welfare la base di legittimità del suo potere. Secondo il rapporto sullo sviluppo umano 2010 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, l’Oman è il Paese che in quarant’anni ha compiuto più progressi in termini di sviluppo umano. Investendo per anni «i guadagni derivanti dal settore energetico nell’istruzione e nella sanità pubblica».
«L’Oman ha creato un sistema di welfare che, fino a un decennio fa, era molto buono. – spiega Valeri – Istruzione e sanità erano gratuiti, e moltissima gente era impiegata nel settore pubblico, nell’esercito o nei servizi di sicurezza. A volte gli impiegati statali non avevano niente da fare in realtà, ma ricevevano comunque uno stipendio e godevano della rendita del petrolio».
Le cose però stanno cambiando. Oggi quasi la metà della popolazione ha meno di vent’anni ed è spesso ben istruita, ma «il settore pubblico è quasi completamente saturo, e quello privato impiega soprattutto immigrati da India, Pakistan, Sri Lanka e altri paesi arabi, con salari molto inferiori rispetto a quelli degli omaniti. – sottolinea Valeri – Per questo motivo tantissimi giovani sono disoccupati e, parallelamente, il welfare non può più essere quello di una volta. Ora, per andare dal medico, bisogna pagare».
Ecco perché le proteste della Primavera Araba non hanno risparmiato neanche il sultanato. All’inizio, nel 2011, i manifestanti chiedevano solo riforme politiche e sociali: speravano in un cambiamento dall’alto. Ma Qabus si limitò a licenziare alcuni ministri, e allora la situazione precipitò. La piazza iniziò a criticare l’intero sistema e la mancanza di libertà politiche, reclamando la nomina di un primo ministro e un parlamento con funzioni appropriate. Le proteste più organizzate portarono, alla fine del 2012, a una maggior repressione, e alcuni manifestanti finirono in prigione con condanne intorno ai quattro o cinque anni.
«Credo che il sultano pensi di essere l’unico in tutto l’Oman a sapere cosa sia meglio per il popolo. – dice a Linkiesta il già citato espatriato che vive a Mascate – Ha puntato tutto sul benessere economico, senza lasciare spazio alle critiche. È un equilibrio molto complesso, piuttosto fragile».
Questo è ancora più vero se si pensa che il sultano compirà presto 74 anni. «Qabus non ha nominato nessun principe per la successione – osserva Valeri – e all’interno della sua famiglia non c’è nessuno che abbia abbastanza carisma da conquistarsi l’appoggio degli altri parenti. Molti omaniti sono preoccupati per questo. Pur apprezzando l’operato del sultano, gli rimproverano di non pensare al futuro, alla successione».
Cosa accadrà nell’era post-Qabus? Di certo sarà molto difficile per chiunque succedere al sultano. Qabus è la personificazione dell’Oman. Il suo ritratto è sulle banconote, il suo nome è nell’inno nazionale, il suo ritratto è esibito negli edifici pubblici. Soprattutto, il potere è tutto concentrato nelle sue mani. Senza un successore all’altezza, l’Oman ha di fronte a sé un futuro con molte ombre, e poche luci.