Nel cronoprogramma del presidente del consiglio incaricato, Matteo Renzi, il lavoro parte in pole position. Il nuovo ministro del lavoro sarà quello sottoposto alla scadenza più stringente: lunedì 31 marzo (come sanno gli esperti di scadenze, quando si indica un mese ci si riferisce all’ultimo giorno, ancora meglio se arriva dopo un weekend).
Si fa spesso ironia sulla velocità di Renzi, sulla sua frenesia. Ma per motivi sbagliati. Si obietta: come si può pensare di fare riforme così importanti in pochi mesi? Non è questo il punto. Le cose da fare si discutono da anni. Adesso, la politica deve scegliere.
Esistono motivi reali, tuttavia, per cui la frenesia degli annunci potrebbe rivelarsi insidiosa. Per la prima volta, dopo aver cavalcato l’onda di un successo entusiasmante, Renzi dovrà risalire la corrente, per poi cogliere il momento giusto in cui salire su una nuova onda. E per farlo non potrà stare fermo; dovrà sbracciarsi come un forsennato. Tutto giusto, tutto comprensibile. Ma l’Italia è un paese provato da anni di stagnazione economica e disillusioni politiche. Un paese a cui non servono Piani (con la P maiuscola) ma sperimentazioni (con la s minuscola). La politica dovrebbe dire agli italiani: recuperate serenità, noi cominceremo a tagliare i costi della macchina dello Stato, ridurre le tasse e approvare le riforme istituzionali. E lanceremo una serie di sperimentazioni che permettano a tutti di tentare nuove strade per mettersi in gioco, attivando – passo dopo passo – le leve di un nuovo modello di sviluppo. Ma questo è un discorso che l’esecutivo non potrà permettersi. Prepariamoci all’ottovolante.
Come ha discusso Thomas Manfredi per Link Tank, ci sono nodi complessi da sciogliere in tema di lavoro. Decisioni insidiose da prendere. Vediamone un paio.
Secondo le ricostruzioni dei giornali, il contratto unico a tutele progressive, proposto da Tito Boeri e Pietro Garibaldi, sarà il piatto forte del programma. Il contratto unico può essere una scelta utile, ma difficilmente la ripresa dell’occupazione passerà da qualche intervento di ingegneria contrattualistica. Sarebbe insidioso caricarlo di troppe aspettative.
Nella formulazione di cui si parla, il nuovo contratto dovrebbe prevedere un periodo di 3 anni in cui l’impresa può licenziare il lavoratore (fatta salva la tutela anti-discriminazione) pagando semplicemente una buonuscita (nel caso in cui non sussistano motivi disciplinari). Dopo 3 anni, scatta la tutela reale della normativa attuale a tempo indeterminato. Qui, ci sono due nodi intricati. Quanti (e quali) contratti flessibili saranno rimossi o irrigiditi per far posto al contratto unico? Se si userà l’accetta, il rischio è di produrre effetti negativi sull’occupazione, colpendo anche quella flessibilità in entrata che risponde a reali esigenze produttive od organizzative. Se non si toglierà niente, il contratto unico cambierà poco.
Il periodo di 3 anni pone un altro dilemma. Come mostrano molti studi sulle politiche del lavoro che ricorrono a simili discontinuità, c’è il rischio di creare distorsioni. Quanti licenziamenti avverrebbero a 2 anni e 11 mesi? Forse sarebbe meglio rendere le tutele davvero “progressive”, magari estendendo il periodo da 3 a 5 anni, ma rendendo la buonuscita fortemente progressiva all’aumentare dell’anzianità contrattuale. In modo che, quando si arriva vicini allo scadere dei 5 anni, l’impresa abbia interesse a recedere solo in casi seri, pena il rischio di pagare una cospicua buonuscita.
Anche per rendere più conveniente il tempo indeterminato rispetto a un uso reiterato delle forme flessibili, si potrebbero usare incentivi economici, piuttosto che divieti (facilmente aggirabili). Qualche anno fa, ho avanzato una proposta di buonuscita compensatoria per qualsiasi forma di lavoro flessibile, esigibile dal lavoratore dopo un prestabilito periodo d’anzianità e solo nel caso in cui l’azienda si rifiuti di stabilizzarlo. Certo, introdurla in un periodo di recessione può essere insidioso per l’aggravio dei costi delle imprese; ma l’aggravio scatterebbe solo nei casi in cui queste non siano disposte a stabilizzare persone di cui mostrano di continuare ad avere bisogno per un periodo prolungato. Niente cambierebbe per chi usa il lavoro atipico per reali esigenze di flessibilità.
Prevedibile l’obiezione: così si mercificano i diritti dei lavoratori. Perché non promuoviamo, allora, una bella consultazione diretta tra i lavoratori flessibili, le finte partite iva e i disoccupati, per chiedergli che cosa pensino di questi diritti “mercificati”? Chi vive già in un mercato fortemente dinamico sa che una dote monetaria per muoversi da un’occupazione a un’altra può essere un aiuto prezioso.
In tema di servizi per l’impiego, le anticipazioni parlano della proposta di istituire un’agenzia nazionale che superi i ritardi e le inefficienze delle regioni. Bene. Ma da decenni, ormai, si parla di “nuove tutele” per i nuovi lavori e di come si debba rafforzare la protezione dei lavoratori “nel mercato”, visto che la protezione nel posto di lavoro è ormai una coperta sempre più corta. Ma gli italiani – giustamente – non si fidano, perché gli si chiede di rinunciare a una coperta sì sempre più corta, ma in cambio di niente. Perché continuano a non capire che cosa siano queste benedette tutele nel mercato.
Non è facile trovare soluzioni concrete che non si arenino nelle sabbie mobili della nostra inefficienza burocratica (tra parentesi, la riforma della pubblica amministrazione resta la madre di tutte le riforme). Ma si potrebbe partire con alcune sperimentazioni. Chi ha letto le analisi di Francesco Giubileo per Link Tank sa bene che non possiamo trasformare il nostro sistema di servizi all’impiego in quello svedese nell’arco di una notte. Per agire subito, quindi, restano due strade: mobilitare il privato e lanciare forme innovative, ma circoscritte e sperimentali, d’intervento pubblico.
Per esempio, si potrebbe ipotizzare che una quota della parte cumulata di Aspi su cui ogni lavoratore ha maturato un diritto venga girata alla società che gli trova un’occupazione. Per mobilitare i servizi privati evitando forme di opportunismo, per cui riceve un beneficio pubblico anche chi piazza lavoratori che avrebbero trovato un’occupazione in ogni caso, si potrebbe limitare l’intervento a certe categorie, come chi riceve già il sostegno degli ammortizzatori sociali da un certo numero di mesi.
La seconda strada potrebbe essere quella di individuare, sulla base dei dati disponibili sull’attività dei centri per l’impiego e sui mercati del lavoro locali, alcune zone dove avviare la sperimentazione di un nuovo modello. Dirottando verso queste aree risorse straordinarie, a partire dall’assunzione di nuove competenze (ingegneri, psicologi, statistici e scienziati sociali in grado di usare strumenti gestionali e d’analisi dei dati all’avanguardia). Competenze da retribuire adeguatamente, dotandole degli strumenti tecnologici di cui necessitano. Insomma: una sorta di “intoccabili” dei servizi per l’impiego, le cui sperimentazioni – qualora avessero successo – potrebbero contagiare l’intero sistema.
Può darsi che alcuni di questi spunti mal si prestino a tradursi in proposte sexy. Attenzione, però. Gli annunci possono servire a risalire la corrente. Ma c’è un’unica onda che Renzi può credibilmente aspirare a cavalcare. Quella dei risultati.