Sogniamo sempre l’America. Dopo anni passati a guardare solo verso Est, le imprese italiane tornano ad avere negli Stati Uniti il loro punto di riferimento, un “cliente” importante per l’export e senza tutte le ansie che implica vendere a Paesi emergenti o con dinamiche interne lontane dalla nostra “cultura occidentale”: rischio Paese, sicurezza dei pagamenti, ma anche più banalmente la lingua sono certamente incognite meno preoccupanti per chi esporta negli States rispetto alla Cina o all’Indonesia.
Dopo dieci anni di euforia i Paesi Bric cominciano a prendere smalto e gli Stati Uniti, grazie alla ripresa economica e all’uscita dalla lunga crisi iniziata nel 2008, torna ad essere un mercato centrale: secondo l’ultimo Rapporto Export di Sace gli Stati Uniti figurano al quarto posto tra le economie le cui importazioni italiane crescono. Certo, la Cina resta sempre il grande mercato di riferimento, ma per le previsioni per i prossimi tre anni gli Stati Uniti faranno un balzo in avanti. Nel 2012 il boom della ripresa (+17% solo per i prodotti manifatturieri), nel 2013 si è registrato qualche timido miglioramento, anche se con performance non eccellenti, ma secondo le ultime rilevazioni Istat la crescita dell’export italiano verso gli Stati Uniti si ferma intorno all’1,5 per cento. Ma per gli economisti di Sace le prospettive sono ottime e si attendono un tasso di crescita medio annuo dell’8,9% nei prossimi quattro anni (2014-2017) e un tasso dell’8,2% nel 2014. Un dato particolarmente positivo considerando i risultati che ci sono stati fino ad ora.
«La ripresa è iniziata, il rallentamento del 2013 è una parentesi dovuta alla volatilità di certi settori, come quello dei prodotti petroliferi, ma le prospettive sono ottime – spiega Alessandro Terzulli, responsabile analisi e ricerche economiche di Sace -: vanno bene soprattutto i settori tradizionali del made in Italy, come i prodotti agricoli, il vino, le bollicine, con un +9,2% nel 2012 e +6,4% l’anno scorso, e i mobili, che registrano un +9,6 per cento. Molto bene anche i beni di consumo, in particolare il sistema moda che con l’alto di gamma traina le performance: nel 2012 l’impennata di un +15%, l’anno scorso un +6,5% e ottime prospettive». Ma non sono questi gli unici settori chiave: gli italiani sono ormai considerati un’eccellenza in tecnologia e innovazione: «Se la ripresa dei consumi negli Stati Uniti ha rilanciato il nostro export di beni di consumo, con la ripresa delle imprese che hanno accumulato notevole liquidità e hanno ricominciato a fare investimenti, è ripartita anche la meccanica strumentale, che pesa il 20% dell’export totale verso gi Usa per un valore di 5,2 miliardi di euro».
Ma gli Usa tornano ad essere interessanti non solo per vendere, ma anche per investire. Per le aziende italiane può diventare anche conveniente, come nel caso della Aquafil di Arco (Trento), azienda specializzata nelle fibre sintetiche e che, partendo da materiali riciclati, crea prodotti di qualità puntando sulla ricerca tecnologica. La Acquafil ha investito oltre 12 milioni di euro per gli stabilimenti cinesi, ma non per delocalizzare la produzione: quella avviene in Europa e negli Stati Uniti, con quattro stabilimenti italiani, dove lavorano 700 persone, in Slovenia (700 dipendenti), in Croazia (300 addetti) e negli Usa (200 persone). Gli Usa sono considerati, rispetto alla Cina, un Paese più conveniente sotto il profilo dei costi dell’energia e delle tasse e con buone opportunità per la ricerca (Acquafil ha stretto un accordo con il Georgia Institute of Technology), ma anche in forte ripresa per l’export: «Per noi gli Stati Uniti sono un mercato in fortissima espansione: nel giro di pochi anni abbiamo raggiunto una crescita media di fatturato superiore al 10 per cento», spiega Giulio Bonazzi, presidente del Gruppo Aquafil.
Una conferma della tendenza a installarsi negli Usa non solo per semplici esportazioni arriva da Charles Bernardini, ex direttore della Camera di Commercio italiana del Midwest e avvocato d’affari dello studio Ungaretti & Harris di Chicago. «Insieme con l’aumento di esportazioni dall’Italia, stiamo vedendo anche un tipo di export più sofisticato. Le aziende italiane che esportano stanno costituendo in Usa proprie filiali, sia per svolgere il ruolo di importatore e catturare quel guadagno, sia per vendere ai clienti americani prodotti realizzati dalla filiale, in modo da apparire come “società americana”, immagine sempre più importante per molti clienti statunitensi».
Le aziende italiane che hanno successo in Usa, aggiunge Bernardini, «sono quelle che hanno investito tempo per visitare gli Usa, preparato un business plan, commissionato una ricerca di mercato a un professionista americano, impiegato tempo per trovare e selezionare il partner giusto americano».
Resta solo l’incognita di capire quanto reggerà la ripresa americana, dove l’immissione di liquidità della Fed e le politiche sull’occupazione hanno avuto un ruolo fondamentale per la ripresa dei consumi. Per Sace, però, si tratta di una ripresa “vera”: «È una ripresa solida, che viaggia con proprie gambe, anche se dobbiamo tener presente che la crisi del 2007 sta volgendo verso il termine ma non è terminata – sottolinea Alessandro Terzulli -: è importante che il Congresso gestisca con equilibrio la politica monetaria, l’aumento dei tassi dovrà essere in modo graduale ed equilibrato, altrimenti rischia di strozzare una ripresa in atto. Ma non si deve neppure eccedere con la gradualità che, se eccessiva, potrebbe portare al ricrearsi di bolle speculative».
BOX: Export negli Usa, dove suonare
– Altre aziende italiane che già esportano
– La Camera di commercio americana in Italia a Milano
– La Camera di commercio o organizzazione locale di Confindustria nel territorio di riferimenti dell’azienda
– I consolati italiani in Usa, a seconda dalla zona (Chicago, New York, Los Angeles, Atlanta, Miami), che hanno tutti commercial attache
– Le Camere di commercio italo-americane di Chicago, New York, Los Angeles, Miami
– Ice (alcuni uffici Ice valgono, altri no, dipende della qualità del direttore).
fonte: Charles Bernardini, studio Ungaretti & Harris, Chicago