Tramite il ministro Maria Elena Boschi il governo ha risposto a chi chiedeva l’allontanamento dei quattro restanti sottosegretari indagati con questo argomento: «un avviso di garanzia non è una condanna: vale la presunzione d’innocenza». L’argomento, in sé, è impeccabile. Ma l’uso che ne fa il governo è tanto sbagliato quanto sorprendente.
La regola secondo cui il politico indagato si deve dimettere non è scritta da nessuna parte, né in Italia né – suppongo – in altre democrazie liberali. È una consuetudine, che nasce da tre considerazioni strettamente legate tra loro. Dimettendosi, l’indagato solleva un’ombra dall’istituzione di cui è parte e rende se stesso più libero di difendersi come desidera, senza rischio di implicare l’istituzione nella propria strategia difensiva. Dimettendosi, quindi, l’indagato dimostra di avere a cuore la sorte dell’istituzione non meno che la propria, e si dimostra fedele agli interessi dei cittadini che lo hanno eletto. Di converso, si presume che i cittadini giudicheranno male – e non rieleggeranno – un indagato che mantenga la propria carica senza curarsi dell’interesse generale. Ne consegue che non solo l’istituzione di cui l’indagato fa parte ma anche il suo partito hanno interesse a che l’indagato si dimetta.
Una regola così concepita non è diretta solo a proteggere l’istituzione coinvolta dall’indagine. La regola mira anche all’efficienza dell’intero sistema delle istituzioni, perché accresce l’incentivo dei politici a comportarsi in modo corretto e conforme all’interesse pubblico.
Ma proprio perché nasce da queste considerazioni, la regola è e deve essere flessibile, sia per non ingessare il comportamento delle istituzioni, sia perché le accuse possono benissimo essere infondate. Dal punto di vista dell’interesse generale, l’indagato che sia certo di essere vittima di un errore giudiziario, o di una manovra partigiana, farebbe meglio a denunciarlo che a dimettersi, per non lasciar prevalere l’errore o la mala fede di chi lo accusa.
Generalmente in Italia questa regola è trascurata. Cito due esempi estremi. Inquisiti senza ragione da giudici romani notoriamente vicini a circoli prossimi al bancarottiere mafioso Sindona, che la Banca d’Italia non volle salvare, il governatore Paolo Baffi e il suo vice Mario Sarcinelli si dimisero. Indagato per una plausibile accusa di frode fiscale, poi confermata, il presidente del consiglio Berlusconi non si dimise.
Affinché l’Italia si sposti dal sistema attuale verso uno nel quale la regola (flessibile) delle dimissioni sia rispettata occorre determinazione, soprattutto all’inizio della transizione: chi la vuole spingere deve pretendere particolare rigore, anche a costo di sacrificare un poco della flessibilità della regola. Qualche irreprensibile indagato sarà costretto magari a dimissioni non necessarie, ma questo sarebbe un modesto sacrificio di fronte al vantaggio di avanzare verso un sistema più efficiente.
Quindi la risposta del governo Renzi è radicalmente sbagliata. Sia perché essa è data nella prospettiva dell’indagato, e non nella prospettiva dell’interesse generale, sia perché essa è data nella prospettiva di chi opera all’interno del sistema esistente, e non nella prospettiva di chi lo voglia cambiare.
Paradossalmente, però, queste considerazioni c’entrano poco con la questione su cui il governo si è pronunciato, perché i cinque sottosegretari erano già indagati al tempo della nomina. La questione non è se i quattro restanti debbano dimettersi o essere rimossi: la domanda è perché siano stati nominati. L’argomento del governo non risponde a questa domanda.
Questo governo dichiara di volere cambiamento, anche su questi temi. Questa intenzione – quantomeno per quanto riguarda il primo ministro e la parte maggioritaria della coalizione – appare assolutamente genuina. Non solo: il piano è plausibile, grazie alla forza politica del primo ministro, la quale ha giustamente provocato dimissioni di un ministro del precedente governo (Nunzia De Girolamo, ndr). Ma proprio per queste ragioni quelle nomine e quella risposta sono tanto dannose e sorprendenti da apparire incomprensibili.
Forse esagero, perché l’era berlusconiana ha lasciato molta confusione su questi temi, discussi per vent’anni mescolando la prospettiva degli indagati con quella dell’interesse pubblico. È possibile che il governo, nel fuoco della polemica e nella frenesia dei primi giorni del suo mandato, abbia reagito poco lucidamente. È egualmente possibile che, nella concitazione delle negoziazioni sulla formazione del governo, il fatto che questi cinque fossero indagati sia stato trascurato. Ma se queste sono le ragioni delle scelte del governo è possibile rivederle.