Nella “cella liscia”, dove si torturano i detenuti

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Mercoledì 19 febbraio 2014: il Parlamento approva il controverso “decreto carceri”, un pacchetto di norme mirato a sfoltire la popolazione penitenziaria e migliorare le condizioni dei detenuti. Il decreto è la diretta conseguenza della “sentenza Torreggiani”, la pronuncia con cui nel 2013 l’Europa ha condannato l’intero sistema carcerario italiano per le condizioni inumane applicate in cella: ma cosa succede davvero dietro le sbarre delle nostre carceri quando i cancelli si chiudono alle spalle del detenuto?

Lo racconta la giornalista *Arianna Giunti nell’ebookLa cella liscia- Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane , appena edito daInformante disponibile in tutti gli store online, di cui pubblichiamo un estratto

La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta. 

E’ lì che secondo i racconti di alcuni detenuti verrebbe rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o semplicemente chi è colpito da crisi isteriche o psichiatriche. A volte solo per una notte, più spesso per un’intera giornata. 

La punizione consiste nel provocare l’annichilimento e l’annientamento psicologico del detenuto, che viene lasciato solo, completamente nudo e al buio. Ogni tanto entra qualcuno per portare l’acqua. Ma non è mai una visita piacevole, perché volano botte e schiaffi, frustate con uno straccio bagnato per non lasciare segni sul corpo, e spesso il carcerato è costretto a fare flessioni ripetute davanti alle guardie. Non esistono sanitari, nella cella liscia. Il detenuto deve fare i propri bisogni sul pavimento, dove è costretto a dormire. L’aria infetta attira gli scarafaggi, che escono dagli anfratti del muro e brulicano per la stanza, infestano il cibo e camminano sopra il corpo del carcerato se lui per caso smette di muoversi. Solo prima di lasciare la cella, al prigioniero viene dato un tubo d’acqua con il quale lavare via i suoi stessi escrementi. 

Quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento dispongono ancora di una cella liscia. Eredità antica, dura a morire. Dura anche da ascoltare e raccontare. Dura da far comprendere a chi lì dentro non ha mai messo piede e non sa, non può, non vuole immaginare che in pieno terzo millennio uno Stato democratico ed evoluto possa ancora ricorrere a strumenti così aberranti.

Eppure i casi di cronaca legati alle “celle lisce” sono tanti e documentati. Prendiamo ad esempio il carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia, che nel 2009 ha attirato l’attenzione della magistratura dopo il suicidio di un cittadino marocchino di ventisei anni di nome Mohammed. I giudici volevano accertare se la cella liscia fosse stata impiegata per ospitare momentaneamente i detenuti “nuovi giunti” in attesa di essere assegnati in sezione, oppure come cella d’isolamento. Dopo la morte di Mohammed il sostituto procuratore Stefano Michelozzi aveva indagato per omicidio colposo due ispettori della penitenziaria: il responsabile del reparto, dove è avvenuto il suicidio, e il responsabile della sorveglianza generale. Secondo il magistrato nella condotta dei due graduati si evidenziavano possibili carenze e omissioni nella gestione del detenuto, che in manifeste condizioni di sofferenza psichica aveva già tentato il suicidio poche ore prima della morte. Abbandonato a se stesso e alla sua disperazione, aveva sfilettato con i denti la coperta di lana che gli era stata data come giaciglio per farne una treccia che poi era riuscito a utilizzare per appendersi alla finestra. 

Quell’episodio aveva suscitato numerose proteste tra i suoi compagni e attraverso le loro lettere pubblicate anche dal sito dell’associazione Ristretti Orizzonti sono state ricostruite le fasi precedenti il suicidio. “Dopo il primo tentativo di farla finita”, scriveva un testimone, “Mohammed è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché nessuno ha controllato cosa faceva e come stava? Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?”. Domande che sono rimaste senza risposta. 

Della tortura della cella liscia aveva parlato prima di morire anche Carlo Marchiori, richiuso in carcere per motivi di droga e ritrovato cadavere nella sua cella a 30 anni non ancora compiuti. La storia di questo giovane detenuto oggi prende vita attraverso le parole di suo padre, Antonio Natale, che con dignità e coraggio vuole capire che cosa sia realmente successo quella sera di novembre di nove anni fa. 

La sua è la storia di un amore incondizionato, che va oltre gli errori e il dolore, e che attraversa gli anni diviso a metà fra la piena consapevolezza della fragilità di suo figlio e la tenace ricerca della verità. Non perché non si rassegni a questa tragica morte, ma perché tutto questo non accada mai più. 

“Io e mia moglie sapevamo che Carlo faceva uso di sostante stupefacenti”, racconta oggi Antonio, “era spesso violento, ci chiedeva continuamente soldi. Per questo motivo, un giorno, stremati da questa situazione, abbiamo deciso di denunciarlo ai carabinieri”. Correva l’anno 2003, e dopo alcuni mesi di detenzione a San Vittore, Carlo passa da un carcere all’altro, fino ad arrivare al Mammagialla di Viterbo.  Lì si trova bene, fa amicizia con il suo compagno di cella e riesce a mangiare il cibo che la mamma del suo “coinquilino” gli fa recapitare in carcere. Un giorno, però, litiga con una guardia. E per la prima volta sperimenta la cella liscia. 

“Dopo un mese di detenzione al Mammagialla, durante uno dei colloqui mio figlio mi disse che lo avevano portato nella cella liscia. ‘E che cos’è la cella liscia?’, gli chiesi”.  La risposta di Carlo lo lascia di sasso. Vorrebbe abbracciarlo ma il suo corpo è come paralizzato.  “Quando sei rinchiuso da solo al buio in quella cella”, scandisce il figlio con un filo di voce, “perdi la cognizione del tempo. Ti sembra che sia passata un’ora e invece sono appena dieci minuti. Ti sembra che sia passata una giornata e invece sono solo due ore”.  Il suo resoconto è agghiacciante: “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come fossero una cosa bella”. 

Qualche settimana dopo, il suo compagno di cella viene trasferito in un altro carcere due mesi prima della scarcerazione. Per Carlo è un dolore enorme, reagisce con rabbia scaraventando un fornellino da cucina contro un agente della penitenziaria. La rappresaglia è tremenda: viene lasciato nella cella liscia un’intera settimana. “Mi sembrava fosse trascorso un anno”, racconterà al padre, “e invece erano solo sette giorni”. Poco tempo dopo viene trasferito nel carcere di Monza. Le sue telefonate sono sempre più rare, durante le visite è cupo e sofferente. Alla mamma, una sera, dice: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Morirà il 5 novembre 2005, 11 giorni prima del suo compleanno. 

Antonio Marchiori non si rassegna, vuole conoscere la verità, e chiede al carcere la cartella clinica del figlio. Scopre che non è mai stata redatta né firmata, e gliela consegnano solo 18 giorni dopo. Quei fogli, compilati svogliatamente dai medici in un freddo linguaggio tecnico, non chiariscono però quali siano state realmente le cause della morte di Carlo. Così presenta un esposto alla Procura di Monza, che però non dispone alcuna autopsia. Il padre di Carlo si scontra contro un muro di gomma anche quando chiede un appuntamento al direttore del penitenziario, dove suo figlio ha passato i suoi ultimi giorni: “Mi dispiace, non posso aiutarla”, si sente ripetere. E non gli ha teso una mano neppure chi davvero avrebbe potuto aiutarlo ad arrivare alla verità, gli ex compagni di cella del figlio. 

Che non hanno mai voluto testimoniare.