La settimana appena trascorsa non può essere di certo considerata una delle più positive per l’universo del web. Se siete dei fanatici della Rete, di quanto ci renda liberi, o di quanto abbia migliorato le nostre vite e vi trovaste per caso a sostenere questa tesi nel bel mezzo di una discussione con chicchessia, forse per questa volta sarebbe meglio passare la mano. Sia chiaro: in queste righe non c’è nessuna voglia di scatenare uno spigoloso dibattito tra apocalittici e integrati dove, viste le premesse, sembra che ci si voglia schierare dalla parte dei primi. Si tratta solo di dare risalto a eventi, passati quasi inosservati, e su cui potremmo nostro malgrado trovarci coinvolti con risvolti non sempre positivi.
Andiamo con ordine. Le notizie più calde arrivano sicuramente da Google: non c’è stato il tempo infatti di digerire la sentenza della Corte europea sul diritto all’oblio, che a Mountain View si sono ritrovati a dovere far fronte a una raffica di richieste (oltre quarantamila) di rimozione dei contenuti da parte degli utenti. Sulla questione ci sembra di aver già detto tanto e per approfondire il tema basta dare un’occhiata agli articoli che troverete inseriti in queste righe. L’unica cosa che ci va di aggiungere a tutta questa vicenda è che, se strutturate, studiate nei dettagli e perseguite fino allo stremo, le battaglie condotte nei confronti delle big company (che siano tecnologiche o meno) possono risolversi in maniera positiva.
Bene, quindi da ora possiamo cominciare a cercare tutto quello che di scomodo pensiamo ci possa essere su di noi in Rete, e chiederne la rimozione? Nemmeno per sogno: innanzitutto la strada per arrivare alla rimozione definitiva dei contenuti non è così semplice come sembra. Una volta inviata la richiesta a Google sarà la società stessa, attraverso una commissione apposita, a valutare se la rimozione del contenuto in questione vada a interferire con il diritto all’informazione degli utenti. In questo caso la rimozione verrebbe annullata. In ogni caso ci troviamo di fronte a un tipo di giurisprudenza ancora tutta da scoprire, ed è facile ipotizzare che non mancheranno le controversie. E anche nel caso in cui la richiesta dell’utente vada a buon fine, i contenuti ritenuti lesivi del soggetto verranno cancellati solo dalla versione europea del motore di ricerca e non da quella americana, trattandosi di una sentenza che ha validità soltanto nel vecchio Continente.
Come se non bastasse poi a mettere altra benzina sul fuoco in tema di privacy ci ha pensato Vodafone. Lo scorso 6 giugno in un comunicato sulla trasparenza dal titolo Law Enforcement Disclosure l’azienda britannica ha ammesso che alcuni governi possono avere accesso alle comunicazioni dei suoi utenti non solo in Europa, ma in tutto il mondo. Esisterebbe addirittura un vero e proprio sistema di sorveglianza collegato alle reti Vodafone, che permetterebbe alle organizzazioni governative di intercettare e registrare telefonate e dati relativi alle geolocalizzazione dei cittadini. E non solo perché questo sistema di sorveglianza può essere messo in atto senza nemmeno un regolare mandato, motivo per cui le aziende non sono in grado di sapere chi finisce nel vortice delle intercettazioni. Per fare un esempio, stando sempre ai dati rilasciati da Vodafone, in Italia – Paese in cui le richieste effettuate per intercettare informazioni vengono rese pubbliche – le istanze presentate a Vodafone dal Governo raggiungono la cifra di 605.601, il più alto numero in assoluto. Tutto ciò peraltro è l’ennesima conferma dell’ormai stranota vicenda dell’attività di spionaggio di massa della National Security Agence denunciata da Edward Snowden.
Ancora più preoccupante sembra invece il nuovo caso del bug nel sistema di criptaggio delle informazioni online. Ricordate Heartbleed? Non più tardi di qualche mese alcuni ingegneri di Google arrivarono ad individuare una falla all’interno del protocollo OpenSSl (per chiarire si tratta del sistema di crittografia dei dati utilizzato dalla maggior parte dei siti di tutto il mondo, al fine di garantire la sicurezza nelle transazioni e nello scambio di informazioni in Rete). Ecco questo “difetto di sistema” in realtà era presente da molto tempo prima che venisse scoperto, e secondo gli esperti i possibili danni relativi ai furti di informazioni sensibili non possono essere quantificati. Oggi, lo stesso inconveniente che ha fatto scattare una psicosi della prevenzione da parte delle grandi aziende del tech – tutte in fila a raccomandare ai propri clienti di cambiare la password più spesso – sì è scoperto non essere l’unico. Un secondo “buco” è stato trovato qualche giorno fa all’interno degli stessi software di sicurezza utilizzati per proteggere due terzi dei siti dalla pirateria informatica. Va da sé che anche in questo caso le notizie relative al periodo in cui è comparso questo bug non sono rassicuranti, gli esperti dicono che potrebbe essere presente da almeno dieci anni. E tanti saluti alla privacy.
Anche se, come sembra trasparire dalle dichiarazioni dei vertici della Symantec, società esperta in sicurezza informatica, questo bug non è così grave come Heartbleed, per il semplice fatto che si tratta di un sistema molto più complesso e difficile da intercettare; resta da capire fino a che punto abbia senso parlare di temi come sicurezza informatica e protezione dei dati sensibili, quando i creatori stessi di questi sistemi complessi e apparentemente sicuri, si trovano un bel giorno a restare a bocca aperta di fronte alla scoperta che una frattura presente da anni in ha permesso alla pirateria informatica di agire e proliferare indisturbata.