Femminicidio dopo femminicidio, niente si muove per combattere la violenza sulle donne. Ultimamente, però, la situazione è addirittura peggiorata: due clamorosi scivoloni hanno reso lampante la leggerezza con la quale troppo spesso si maneggiano le leggi a tutela delle vittime.
Con il cosiddetto “svuota-carceri”, il governo ha stabilito il divieto assoluto di disporre la custodia in carcere allorquando il giudice – in sede di applicazione di una misura cautelare – ritenga irrogabile in concreto una pena non superiore a tre anni. Il provvedimento risponde a una specifica esigenza di ragionevolezza e alla finalità – in sé condivisibile – di contenere l’uso smodato della custodia carceraria, ma la tecnica legislativa impiegata solleva notevoli perplessità.
Chiunque frequenti le aule di giustizia sa che la sanzione detentiva per lo stalker o per l’autore di maltrattamenti in famiglia è facilmente contenuta nel limite dei tre anni di reclusione
Il decreto legge ha infatti posto un limite generale alla custodia in carcere, senza considerare il rischio che correranno tutti coloro (di solito donne) che hanno avuto il coraggio di denunciare maltrattamenti in famiglia o atti persecutori. Chiunque frequenti le aule di giustizia sa benissimo che, per effetto delle attenuanti generiche, la sanzione detentiva per lo stalker o per l’autore di maltrattamenti in famiglia può essere facilmente contenuta nel limite dei tre anni di reclusione: per lo stalker, la pena edittale prevista dall’articolo 612 bis c.p. va da sei mesi a cinque anni; per l’autore di maltrattamenti in famiglia, la pena edittale prevista dall’articolo 572 c.p. oscilla da due a sei anni. Ciò significa che il giudice potrebbe disporre tutt’al più i domiciliari, nonostante il pericolo di reiterazione del reato. Ma, naturalmente, sarebbe contrario alla stessa logica cautelare disporre i domiciliari per il marito violento nell’abitazione condivisa con la moglie maltrattata. Allo stesso modo, sarebbe assurdo concedere una simile misura nei confronti di uno stalker che, per esempio, risieda nello stesso condominio della vittima. Da qui il paradosso legislativo, con l’impossibilità di applicare – in diversi casi – tanto la custodia cautelare, quanto i domiciliari.
Considerate le severe critiche piovute da ogni parte, è probabile che il governo, come annunciato dal ministro Orlando, proporrà un emendamento per restituire al giudice la possibilità (anzi, l’obbligo) di valutare la pericolosità sociale del reo. Le strade da percorrere potrebbero essere due.
È contrario alla stessa logica cautelare disporre i domiciliari per il marito violento nell’abitazione condivisa con la moglie maltrattata
Il dottor Rodolfo Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ha proposto di correggere il tiro escludendo il divieto della custodia cautelare in carcere per reati come lo stalking aggravato, i furti, i maltrattamenti, la rapina aggravata. Questa soluzione – efficace sul piano pratico – si espone tuttavia al rischio di censure di legittimità costituzionale per difetto di ragionevolezza (la selezione delle fattispecie escluse dal divieto potrebbe infatti rivelarsi discutibile).
In alternativa, si potrebbe prevedere una deroga al divieto di custodia cautelare, demandando al giudice la valutazione in concreto della pericolosità del reo: per esempio, consentendo comunque l’applicazione della custodia in carcere quando sussista un fondato timore per l’incolumità fisica della vittima.
Insomma, un pasticcio: e ora bisogna agire per evitare il paradosso che sia una legge a facilitare la violenza sulle donne. Peraltro, non è la prima volta che il legislatore “scivola” su questo argomento.
Nel 2013 (in sede di conversione al d.l. n. 78), quando si trattò di modificare le condizioni di applicabilità della custodia in carcere – prevedendola solo per i delitti puniti in astratto con la pena non inferiore nel massimo a cinque anni (elevando così il tetto di pena dagli iniziali quattro anni) – il parlamento non si avvide immediatamente delle conseguenze a cascata sul reato di stalking e dovette correre ai ripari (peraltro, con scarsa attenzione al tema della funzione della pena) aumentando la sanzione detentiva per gli atti persecutori.
Mi sembra quindi confermata la tendenza del legislatore italiano a tappare le falle del sistema con la solita logica emergenziale: interventi frettolosi e disorganici, che non solo non costituiscono una reale tutela per le donne, ma che talvolta addirittura le espongono a rischi ancora maggiori.