Dall’inizio della “grande recessione”, le retribuzioni lorde medie per ora lavorata delle grandi imprese sono cresciute in media del 2,3 per cento annuo nell’industria e dell’1.8% nei servizi. Non è del tutto una buona notizia: data la dinamica negativa della produttività del lavoro, questo dato significa soprattutto che nell’industria le nostre grandi imprese hanno dovuto sobbarcarsi un costo del lavoro per unità di prodotto crescente e, di conseguenza, un’ulteriore perdita secca di competitività rispetto ai competitor internazionali. Come si nota dal grafico, solo nelle fasi iniziali della crisi si è registrata una leggera correzione verso il basso dei salari nel settore industriale. Subito dopo, tuttavia le retribuzioni orarie sono di nuovo cresciute seguendo un trend piuttosto stabile e scollegato dalla dinamica della produttività, atavico male della nostra economia.
Indice delle retribuzioni lorde medie per ora lavorata nella grande industria da gennaio 2009 a giugno 2014 (fonte: Istat)
Questa evidenza, assieme a molte altre, pone in discussione l’efficienza del nostro sistema di contrattazione collettiva, così come si è stratificato nel tempo. Se nemmeno la pressione della disoccupazione riesce a piegare la crescita dei salari, significa che la segmentazione del nostro mercato del lavoro e una contrattazione lenta e farraginosa che sembra non rispecchiare le dinamiche di produttività relativa settoriale, impediscono la correzione necessaria del costo del lavoro, che dovrebbe scendere, adattandosi, nei periodi di crisi. Il motivo è semplice: se i “segnali” dei salari relativi non funzionano a dovere, il motore perpetuo della riallocazione del lavoro, che è una fonte decisiva di crescita della produttività del sistema, si inceppa. Poco lavoro e mal allocato, quindi, sebbene quel poco sia ben retribuito. C’è molto da riflettere, per il nostro governo, di fronte alle forche caudine delle riforme strutturali.