Venerdì 26 settembre il nuovo presidente dell’Afghanistan, Ashraf Ghani, e il nuovo primo ministro, Abdullah Abdullah, si sono messi d’accordo sui nomi dei ministri per il prossimo governo di unità nazionale. I pashtun hanno ottenuto 11 posizioni, i tagiki 8, gli Hazara 5, mentre i restanti incarichi sono stati assegnati ad altri gruppi etnici minoritari. Il giorno prima Abdullah aveva fatto le congratulazioni al nuovo presidente, annunciando che aveva dovuto accettare l’accordo con Ghani per il bene del Paese e per evitare future violenze. Nonostante siano in molti a dubitare della tenuta di questo assetto, è evidente la buona intenzione di non scontentare nessuno. In prima fila tra chi voleva un patto di unità nazionale c’è l’amministrazione Obama, che ha avuto un ruolo fondamentale nella creazione del nuovo governo. Quello che è successo in Iraq, con l’esclusione progressiva della minoranza sunnita dall’amministrazione dello sciita al-Maliki, ha insegnato agli americani che non è consigliabile sbilanciarsi a favore di una fazione in contesti così instabili. La paura che l’Afghanistan possa diventare un nuovo Iraq, dopo l’imminente disimpegno della coalizione internazionale, è più che legittima. Le divisioni etniche e tribali e la minaccia dei talebani, infatti, sono tutto fuorché un problema risolto: mentre a Kabul Ghani e Abdullah si mettevano d’accordo, nel Sud del paese i talebani uccidevano cento persone in una nuova offensiva. Un governo solido che oggi, e soprattutto domani, riesca a contrastarli è un buon punto di partenza, ma non è detto che basterà.
Dopo mesi di conteggi, accuse di brogli, ballottaggi e trattative private, il 21 settembre l’Afghanistan ha scelto il suo nuovo presidente. La Commissione elettorale indipendente afghana (Iec) ha decretato Ghani vincitore del ballottaggio tenutosi il 14 giugno, senza tuttavia dichiarare le cifre esatte dello spoglio. Ghani sostituisce Hamid Karzai, al potere dal 2004, in quella che verrà ricordata come la prima transizione democratica della storia del Paese. Il processo elettorale è durato in tutto più di cinque mesi, iniziato con le prime votazioni ad aprile e con il successivo ballottaggio tra i due principali candidati: Ghani e Abdullah Abdullah.
Da allora i due si sono continuati ad accusare reciprocamente di brogli e falsificazioni. Abdullah in particolare, dopo che da iniziale favorito si era visto sorpassare, accusava Ghani di controllare la macchina elettorale. L’unico modo per uscire dall’impasse è stato quello di mettersi d’accordo per un compromesso che soddisfacesse entrambi gli sfidanti. Sotto la pressione degli Usa e delle organizzazioni internazionali (l’Onu a luglio si è incaricato dello spoglio) per trovare una soluzione politica, i due si sono finalmente messi d’accordo per il governo di coalizione, con Ghani presidente e Abdullah Chief executive officer (Ceo), una carica creata ad hoc che assomiglia molto a quella di primo ministro.
I curricula dei due politici non potrebbero essere più diversi. Ghani rappresenta l’etnia pashtun (maggioritaria in Afghanistan) ed è l’esponente di spicco dal punto di vista internazionale. Un percorso di studi in università americane, un impiego nella Word Bank e una carica da ministro delle Finanze (2002-2004) sotto il governo Karzai, ne hanno fatto il candidato favorito delle potenze occidentali. Eccolo mentre tiene una conferenza a un Ted Talk sulla ricostruzione dell’Afghanistan.
Abdullah, d’altra parte, rappresenta le etnie non pashtun (nonostante lui ne rivendichi l’appartenenza) e in particolare quella tagika. Ministro degli Esteri dal 2001 al 2005, aveva sfidato il suo presidente Karzai nelle elezioni politiche del 2009, dal quale si era ritirato accusando Karzai di brogli. Il punto di forza di Abdullah, e il motivo che lo ha visto come favorito alle elezioni per molto tempo, è la sua storia personale in Afghanistan. Egli può vantare, infatti, la sua posizione durante la guerra contro i russi al fianco di Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir. Massoud è considerato un eroe nazionale, in particolare nel Nord del Paese, per la sua resistenza all’invasione sovietica, prima, e a quella talebana, poi. Essere stato stretto consigliere e “ministro degli Esteri” di uno dei pochi che è riuscito a tenere insieme molte etnie e tribù afghane, è un punto di forza non da poco.
Non si può dire che tra i due politici corra buon sangue. L’abbraccio tiepido al momento della firma degli accordi è stato la riprova che entrambi si sono, loro malgrado, arresi all’idea che un accordo sia l’unica soluzione per mandare avanti il Paese senza arrivare a una crisi politica.La divisione dei poteri potrebbe, d’altra parte, creare una situazione di paralisi.
Linkiesta ha chiesto il parere di Andrea Carati, ricercatore in Relazioni Internazionali dell’Università degli Studi di Milano. «C’è il rischio che si venga a creare una situazione di stallo, però è un rischio che ha segnato molti Paesi in cui c’è stato un intervento internazionale e dove, attraverso contributi di state building esterni, si è cercato di tenere insieme attori politici concorrenti. Un esempio è la Bosnia, e anche in parte il Kosovo, situazioni in cui hanno dovuto convivere per forza i nemici dell’ora prima. Certamente per l’Afghanistan potrebbe profilarsi un periodo di instabilità politica con veti incrociati che bloccano lo sviluppo del Paese. Però storie come quella bosniaca o kosovara dimostrano che queste coalizioni sono riuscite, tutto sommato, a garantire una tenuta politica che nel lungo periodo può portare a una situazione di normalità».
Restando fermo che in questo contesto la stabilità sia l’obiettivo principale, c’è chi, come Shahmahmood Miakhel della rivista Foreign Policy ha visto la conclusione della lunga vicenda elettorale da un altro punto di vista, più critico. Miakhel sostiene che un governo di coalizione creato sotto la pressione della Nato e degli Usa non sia la soluzione giusta per l’Afghanistan in questo momento, e che sia solo l’ultima di una lunga serie di provvedimenti creati per risolvere problemi nell’immediato e non a lungo termine. L’autore prende poi una posizione interessante: per la prima volta che il popolo afghano si trova nella condizione di poter scegliere il proprio futuro, ecco che dopo cinque mesi di attesa si ritrova con un governo creato con trattati privati e dietro la spinta di autorità straniere. Perché votare se poi tanto nessuno ha vinto? Il rischio è che gli elettori rimangano con la sensazione di aver avuto solo l’illusione di poter scegliere qualcosa.
È sicuramente un’argomentazione notevole, che sembra però non tenere conto di quello che sarà il futuro prossimo dell’Afghanistan. Non si può, infatti, dimenticare che nel giro di due anni le forze militari straniere lasceranno il Paese, il quale ha bisogno di un suo governo. Con tutto il male che si può dire di queste elezioni, bisogna comunque riconoscere la necessità della loro conclusione in vista di un futuro poco rassicurante. Carati ci ha dato il suo punto di vista sugli anni a venire e sulla precarietà della sicurezza del Paese: «Sul futuro sono pessimista. I programmi di addestramento delle forze di sicurezza afghane saranno fatti in buona fede e con impegno sincero da parte delle truppe internazionali, ma saranno del tutto insufficienti in termini numerici, e temo anche in termini di finanziamenti. Le forze afghane costano molto e la comunità internazionale ridurrà progressivamente anche l’aiuto economico. Più in generale, hanno dei problemi che vanno dalle divisioni etniche interne ai deficit di stanziamenti. Non avranno tutti gli asset militari che gli hanno dato le truppe internazionali finora, in particolare l’aeronautica, che è stata fondamentale nella causa contro i talebani in questi anni». Nonostante non siano più nei radar dei media come una volta, i talebani restano una minaccia costante nella regione, e non hanno atteso molto a ricordarlo attraverso un comunicato uscito dopo l’elezione di Ghani. «I talebani hanno minacciato di voler continuare la Jihad (Guerra Santa) fino all’instaurazione in Afghanistan di un autentico governo islamico. “Il processo che ha portato al potere Ghani – si sostiene in una dichiarazione firmata da Zabihullah Mujahid (uno dei portavoce dei talebani) – è stato falso e vergognoso, non accettabile per gli afghani”» si legge in una notizia Ansa. Venerdì hanno confermato queste intenzioni.
Continua Carati: «Non so se ci sarà un rafforzamento dei talebani, sicuramente nell’ultimo anno e mezzo hanno tenuto fortemente il loro potenziale offensivo. Infatti, se è vero che il numero di vittime è diminuito sul fronte internazionale, d’altra parte (secondo i dati del dipartimento americano) sono aumentate quelle nelle forze di sicurezza locali, che i talebani considerano ovviamente come collaborazioniste. In quest’ultimo anno hanno assunto un approccio attendista rispetto alle forze della coalizione. Ci sono molti commentatori sul campo che sostengono come in realtà stiano raccogliendo le forze per mettere alla prova le truppe afghane dopo che il ritiro della Nato sarà completato alla fine del 2014. E più ancora alla fine del 2015, quando i 12mila soldati americani che rimangono verranno dimezzati. Il futuro dell’Afghanistan è sempre stato incerto, ma credo che non lo sia mai stato come ora».