Dimenticate la filastrocca “prezzo del petrolio in rialzo a causa delle tensioni internazionali”. Il 9 settembre il prezzo del Brent, la qualità di greggio più scambiata sui mercati mondiali, è arrivato sotto la soglia psicologica dei 100 dollari al barile mentre il Wti americano è arrivato a 91,70 dollari. Una tendenza al ribasso che prosegue dal mese giugno quando l’oro nero era arrivato a 115 dollari. Da allora il trend al ribasso è proseguito fino ad arrivare a 99,36 dollari, la quotazione più bassa dal maggio dello scorso anno (qui tutti i prezzi aggiornati sul sito della Us Energy Information Administration). Ormai è chiaro che agli investitori non fanno paura le tensioni geopolitiche e l’instabilità legata ai conflitti. Eppure di focolai di crisi nei Paesi produttori ce ne sono molti. L’avanzata dell’Isis in Iraq, il durissimo scontro tra Occidente e Russia sull’Ucraina, la guerra tra milizie in Libia, la Nigeria sempre più destabilizzata, l’Iran ancora incagliato tra le sanzioni occidentali. Ormai quello del petrolio sta diventando un mercato sempre più “normale”, regolato da leggi prettamente economiche. Siamo entrati nell’«era dell’easy oil», ha detto Luay Al-Khatteeb, visiting fellow del Brooking Institution. Si tratta di una svolta radicale sullo scenario economico e geopolitico mondiale. Un cambio di paradigma che trova origine in diversi fattori.
Arabia Saudita
Quando si parla di petrolio bisogna sempre guardare all’Arabia Saudita, il peso massimo dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. Rihad, fino ad ora, è sempre riuscita a determinare sostanzialmente da sola il prezzo all’interno del cartello con sede a Ginevra. Dalla guerra dello Yom Kippur, passando per i conflitti in Iraq, fino agli sconvolgimenti della cosiddetta “primavera araba” i sauditi hanno sempre fatto la voce grossa sul mercato degli idrocarburi garantendo una certa tranquillità sui mercati mondiali. In un paper del Centro di Documentazione e Ricerca Luigi Einaudi, Antonio Picasso ha scritto che la famiglia reale saudita stringe tra le mani «uno scettro che implica il potere di fare il bello e il cattivo tempo sui mercati degli idrocarburi».
Nonostante gli aspri contrasti tra i discendenti di Ibn Saud, la casa regnante «segue una strategia che è comune a tutti. Vendere in maniera costante e senza fare impazzire i propri acquirenti. Perché la stabilità politica garantisce flussi di cassa continui. Mentre i sovvertimenti, anche quelli regionali, ti fanno guadagnare ora, ma non danno certezze future». Infatti, all’inizio di settembre i sauditi hanno annunciato forti sconti sui prezzi del prossimo mese per Asia, America ed Europa. Una mossa che serve a blindare le proprie quote di mercato. Bisognerà capire fino a quando Rihad potrà permettersi di giocare il ruolo di swing producer in un quadro di domanda in calo e entrate statali che diminuiscono. Nick Butler, ex dirigente della British Petroleum ha fatto notare sul Finacial Times che nella maggior parte dei casi i Paesi esportatori di petrolio non sono democrazie. Dittatori e famiglie reali varie hanno bisogno di un flusso costante di petrodollari per garantirsi consenso e stabilità. Un prezzo del petrolio costantemente attorno ai 100 dollari al barile creerebbe problemi a molti. Anche alla casa regnante saudita.
Ma non è solo Rihad a spalancare i rubinetti del petrolio. Nonostante l’avanzata degli estremisti dell’Isis e la disputa con la Regione Autonoma del Kurdistan sulla suddivisione dei proventi del greggio, l’Iraq (secondo produttore Opec proprio alle spalle dell’Arabia Saudita) sta riemergendo come grande produttore. Gli iracheni vogliono mettere sul mercato 4 milioni di barili al giorno nel 2014 e di 4,7 nel 2015.
Stati Uniti e Canada
C’è poi il “miracolo” dello shale oil di Stati Uniti e Canada. La produzione americana ha raggiunto un nuovo record con 8,4 milioni di barili al giorno. La nuova abbondanza di oro nero si interseca con una crescita più debole del Pil mondiale che ha portato l’Iea (International energy agency) a rivedere al ribasso l’incremento della domanda. Gli analisti dell’agenzia parigina hanno tagliato le stime sulla domanda sia per il 2014, in calo di 180mila barili al giorno; che per il 2015 (meno 90 mila barili).
L’Europa continua ad annaspare in una crisi economica che deprime anche i consumi energetici. Gli Stati Uniti producono in casa lo shale oil e possono permettersi di ridurre le importazioni. Anche l’energivora crescita cinese è meno sostenuta, quest’anno il Pil di Pechino dovrebbe crescere del 7,5%, meno dello scorso anno. Pechino importa 5,6 milioni di barili al giorno e più della metà provengono dalla regione del Golfo Persico.
Tutta una serie di fattori che consolidano la visione ribassista degli speculatori ancora indaffarati a vendere. Una tendenza avallata da un nuovo trend geopolitico. Nei Paesi produttori l’attività estrattiva non sembra essere toccata dalla situazione politica. Abbiamo già detto dell’Iraq, Paese in cui – nonostante l’Isis – il ministero del Petrolio ha previsto un aumento delle esportazioni. Anche grazie alla costruzione di un nuovo oleodotto realizzato da Cnpc (China national petroleum corporation, il più grande produttore di petrolio e di gas cinese) e all’avvio della produzione del giacimento Halfaya, con una capacità di nuovi 100 mila barili al giorno.
Libia
Un discorso analogo si può fare per la Libia. Nella prima settimana di settembre l’output ha toccato i 600 mila barili giornalieri. Ora siamo a quota 720 mila e la Noc compagnia statale libica, ha dichiarato che presto sarà superato il milione. Le milizie libiche hanno capito che è conveniente non intaccare le infrastrutture petrolifere e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti. Come fa notare Alsir Sidahmed su Arab News, nonostante le violenze in molti Paesi produttori, i volumi dell’output non sono diminuiti più di tanto. «Questo si spiega col fatto che le fazioni in lotta hanno capito che bloccare la produzione non è nei loro interessi. Soprattutto se hanno bisogno di finanziarsi».
Sud Sudan
Un altro esempio viene dal Sud Sudan. Durante la guerra civile le forze indipendentiste sabotavano le attività petrolifere e volevano costringere l’americana Chevron a sospendere la produzione. Ma dopo aver siglato la pace con Karthum, il neonato governo del Sud Sudan ha realizzato che per finanziarsi aveva bisogno delle esportazioni di greggio e ha impedito ai ribelli di attaccare le infrastrutture petrolifere.
Il prezzo del petrolio resta basso anche grazie a motivi che c’entrano poco con la geopolitica e l’economia. Ormai non ci sono solo i mezzi di informazione tradizionale a dare copertura mediatica a rivolte e guerre. I social media forniscono informazioni in tempo reale, ventiquattrore su ventiquattro. Secondo Sidahmed, questo contribuisce a ridurre la speculazione sul prezzo del barile, una componente che può arrivare a pesare fino al 10 per cento del prezzo finale. Anche un tweet o un post su Facebook possono tenere bassi il prezzo del greggio. È l’era dell’easy oil.