Piccolo non è bello. Ora le imprese devono crescere

Piccolo non è bello. Ora le imprese devono crescere

Quali politiche per le piccole medie imprese? L’argomento è al centro del dibattito politico da anni ma misure efficaci tardano ad arrivare. È proprio sulle politiche atte a promuovere lo sviluppo e la crescita delle Pmi su cui è centrato il rapporto Ocse presentato il 10 settembre alla presenza del ministro Guidi. È innanzitutto necessario ricordare – se ancora ce ne fosse bisogno – che il denso tessuto imprenditoriale del nostro Paese è costituito soprattutto da micro-imprese, ovvero aziende con meno di dieci dipendenti. Queste rappresentano il 90% delle imprese, impiegano il 50% degli occupati e generano un valore aggiunto pari al 30% del totale.

Figura 1 – Occupazione per classe di grandezza d’impresa

Già da questi numeri si può intuire uno dei maggiori problemi che affliggono il nostro tessuto imprenditoriale: il bassissimo livello di produttività delle micro-imprese.

Figura 2 – Gap di produttività fra imprese italiane e maggiori partner Ue

Come evidenzia il grafico, le nostre micro-imprese tendono ad avere un livello di produttività inferiore del 20% e 30% rispetto a Francia e Inghilterra, sia nel settore manifatturiero che in quello dei servizi. Al contrario, le medie e grandi imprese – sopra i cinquanta dipendenti – sembrano essere più produttive delle loro controparti francesi, inglesi e tedesche. Quest’ultimo dato nasconde, in buona parte, ciò che in economia è conosciuto col nome di sorting, ovvero un processo di selezione che in Italia sembra centrarsi sul fatto che solo imprese ben più produttive delle media riescono a svilupparsi e espandersi al di sopra della soglia considerata. La più alta produttività delle nostre grandi imprese è perciò un sintomo di malfunzionamento del mercato.

Non a caso il rapporto Ocse sottolinea come, nonostante l’alta intensità imprenditoriale, il tasso di start-up, e soprattutto quello di “gazzelle” (giovani imprese con forte crescita occupazionale) sia ben inferiore alla media Ocse. Il problema principale risiederebbe nella scarsa propensione alla crescita dimensionale. Il rapporto, infatti, tende a smitizzare un luogo comune che vorrebbe l’Italia nelle retrovie in quanto a semplicità burocratica per aprire una attività economica. In realtà l’unico vero ostacolo sembra essere di natura fiscale, più che procedurale che incide solo nel caso di società di capitali (srl, spa, ect).

Figura 3 – Tasso di imprese ad alta crescita, misurata in termini occupazionali

Le politiche recenti, in tema di apertura di piccole società, hanno snellito di molto le procedure. Ciò che manca sono politiche accorte e mirate per far crescere le piccole imprese. Il declino dei distretti industriali, metodo organizzativo che, alla complessità della burocrazia all’interno dell’impresa, sostituisce la flessibilità di un network di mercato, non ha di certo giovato. Le attività innovative, le spese in ricerca e sviluppo, il numero di brevetti delle nostre Pmi, si situano tutte nella parte bassa della distribuzione dei paesi Ocse.

Va sicuramente meglio per quanto riguarda le performance di export delle Pmi: la quota di piccole imprese che esportano è fra le più alte dei paesi Ocse, sebbene il contenuto tecnologico del valore aggiunto esportato, e il suo grado di interconnessione nelle catene del valore globale non sia soddisfacente. Evidentemente il nanismo non aiuta nemmeno sotto quest’aspetto, così come è abbastanza farraginoso tutto il sistema di incentivi all’esportazione incentrato sull’agenzia per la promozione all’estero e l’internalizzazione delle imprese italiane, ritenuta inefficace.

Figura 4 – Intensità della ricerca e sviluppo nella manifattura e nella manifattura ad alto e medio tasso di tecnologia (2008 o ultimo anno disponibile)

In conclusione, il nanismo imprenditoriale italiano sembra essere molto incentrato sull’informalità piuttosto che su una economia di mercato moderna. Il rapporto mostra cifre, conosciute ma sempre scioccanti, sul grado d’informalità della nostra economia che, sebbene in calo, resta vicino al 17% del Pil registrato. La relazione positiva fra numero di micro imprese e attività sommerse a livello di Paese suggerisce che i due fenomeni siano collegati. Inoltre, l’alta incidenza di lavoratori autonomi nasconde in realtà una via di fuga da una normativa del lavoro farraginosa, che indirettamente favorisce forme di lavoro diverse da quello dipendente. Tutto ciò si riversa negativamente sui programmi di politiche attive che incoraggiano l’imprenditorialità, data la difficoltà di focalizzarle su chi davvero ha potenzialità di successo.

Negli anni Ottanta e gli anni Novanta il miracolo delle nostre piccole imprese era su tutte le prime pagine dei giornali. È giunto il momento di guardare in faccia la realtà, e dichiarare senza mezzi termini che piccolo non è più così bello. È bello crescere, sia come economia generale, sia come impresa. Le storie di successo delle start-up nei Paesi più avanzati lo dimostrano. Reindirizzare le politiche economiche pubbliche verso questo obiettivo sembra più che mai urgente.

Figura 5 – Micro-imprese ed economia informale

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