«Ebola, il pericolo adesso è l’allarmismo»

«Ebola, il pericolo adesso è l’allarmismo»

«L’allarmismo sproporzionato è un problema che andrebbe sottolineato più spesso, perché tutto serve tranne che creare il panico». A dirlo è il primario del reparto Malattie infettive e tropicali dell’Ospedale Sacco di Milano, professor Massimo Galli, che continua: «i fatti che sono avvenuti in questi giorni (falsi allarmi in aeroporti a Milano e Roma, ndr) sono semplicemente legati al fatto che è stata male una persona di colore, e questo è bastato per far pensare all’Ebola. Oltretutto i soggetti coinvolti provenivano da paesi che non sono assolutamente implicati nel problema. Si sta creando un atteggiamento che è proprio quello da evitare assolutamente».

Insomma, Ebola fa sempre più paura e rischia di diventare una vera e propria psicosi. Ed ecco il paradosso: nella società occidentale il panico e l’allarmismo potrebbero diventare un problema prima ancora della malattia stessa. Intanto la stampa occidentale si mobilita ad ogni avvisaglia di contagio in Europa o negli Stati Uniti. Un caso sospetto diventa una notizia. Ma ripartiamo dai fatti: martedì 14 è morto all’ospedale di Lipsia un dipendente dell’Onu proveniente dalla Liberia, il quarto decesso per Ebola fuori dall’Africa, dopo quello di Dallas e i due di Madrid. Come riporta una bella pagina speciale del New York Times dedicata all’emergenza, in questo momento, in Europa e Usa sono sette i pazienti che stanno ricevendo un trattamento per il virus, mentre altri sei sono ricoverati per accertamenti. L’ultimo caso è di oggi: nell’ospedale di Dallas, dov’era ricoverato il primo caso di Ebola in America, un secondo infermiere è stato trovato positivo al virus.

Casi di Ebola fuori dall’Africa (fonte Nyt)

In Italia, invece, nonostante molti falsi allarmi, non è stata ancora registrata la presenza del virus. Oggi il presidente Barack Obama terrà una videoconferenza con il premier Matteo Renzi e i leader di Gran Bretagna Francia e Germania per affrontare il tema dell’emergenza Ebola, che ha causato più di 4.400 morti e rischia di devastare i Paesi dell’Africa occidentale. Ma la paura viaggia più veloce del contagio.

La professoressa Valentina D’Urso, docente di psicologia generale all’Università di Padova, spiega come viene alterata la percezione di un rischio: «I mezzi di comunicazione hanno una grandissima importanza. Il peso che viene dato alla notizia, lo spazio dove viene collocata nel giornale o nel servizio, influenza la percezione del pubblico e può alimentare un allarmismo sproporzionato. L’effetto viene enfatizzato al massimo dagli aspetti fotografici e visivi. In questo modo si alimenta la sensazione di pericolo in chi usufruisce dell’informazione, la quale si può tramutare in vera e propria angoscia nei soggetti a rischio. E soprattutto questa percezione del pericolo non viene confrontata mai rispetto a pericoli molto più banali ma molto più probabili. Attenzione a essere critici su queste notizie e a confrontarle sempre con altri rischi più vicini a noi. Le masse si muovono in maniera molto emotiva, ed è estremamente facile eccitare questo tipo di emotività, basata da una parte su un pericolo molto grande, ma dall’altra parte su dei numeri molto piccoli. Un modo per dare il giusto peso a una notizia potrebbe essere quello di relativizzarla. Un messaggio potrebbe essere “Se arriva un caso di Ebola a Malpensa o a Fiumicino, il rischio che tu possa essere contagiato è mille volte inferiore rispetto a quello di avere un incidente in macchina ogni volta che vai al lavoro”».

L’informazione ha delle grosse responsabilità in queste situazioni, e la prof. D’Urso è abbastanza intransigente a riguardo: «Nel malaugurato caso che si presenti un caso di Ebola in una città italiana, quello che farei sarebbe dare più informazioni possibili in negativo, che vuol dire sottolineare che cosa non è rischioso piuttosto che il contrario. Non riducendo l’entità del fatto, ma l’impatto. Anche a rischio di dover censurare. Il danno che potrebbe creare il panico potrebbe essere sproporzionato rispetto all’entità del problema».

La questione riguarda anche l’America. Dopo la morte di Thomas Eric Duncan, il primo e unico caso mortale negli States, una sensazione di panico generale si è diffusa da costa a costa. Scrive Abby Haglage, giornalista del Daily Beast: «Quando la prima persona a essere diagnosticata per Ebola negli Stati Uniti è morta, ogni senso di calma rimasto sul virus in America se ne è andato con lui. In seguito alla prima diffusione della diagnosi di Thomas Eric Duncan, era stata la discussione sui primi sintomi “non specifici” – simili a quelli del raffreddore – che aveva colpito l’opinione pubblica. Poche ore dopo la pubblicazione di questi report, la mania era in pieno sviluppo. Gli ammonimenti del Cdc (Centers for disease control and prevention), che ricordavano che uno doveva andare in contatto con i fluidi corporei di una vittima di Ebola per essere infettato, cadevano nel vuoto. Negli ospedali sparsi per la nazione, americani impanicati con i sintomi dell’influenza si convincevano che i prossimi sarebbero stati loro».

Ecco l’altro grande rischio. Le risorse e le strutture in grado di contenere e curare il virus sono limitate. E il panico può provocare un’ondata di falsi allarmi che tenendo impegnati gli addetti alla cura e al contenimento, finirebbe per distoglierli dal loro lavoro.

Chiaramente, più l’epidemia va avanti senza che ci siano interventi sufficienti a fermarla nei tre paesi interessati (Guinea, Liberia e Sierra Leone), più aumentano i rischi per l’Europa. Questa forma di Ebola aveva dato in totale 1.378 casi a partire dal 1976 distribuiti in undici epidemie diverse, in paesi e in luoghi differenti. In Guinea si è manifestata a dicembre dell’anno scorso e da lì si è sviluppata facendo più di 4 mila morti, caso senza precedenti. La differenza con le epidemie passate è che i Paesi coinvolti oggi sono molto più popolati, e che in questi paesi la gestione del problema è resa molto complicata dalla estrema povertà, che li vede in cima alla classifica dei Paesi più poveri. Dobbiamo ricordare poi che un secondo grosso problema è dato dalla difficoltà di governare questi paesi.

I precedenti di Ebola in Africa (fonte Nyt)

Sui rischi effettivi per le società occidentali, il prof. Galli resta prudente. «Sono stati fatti dei modelli di rischio che vedono la Francia e l’Inghilterra a maggior rischio perché hanno le comunità più grandi di stranieri con origine nei paesi coinvolti. Noi seguiamo in una posizione molto più defilata, con una stima attorno al 5% di rischio, fondamentalmente perché non abbiamo voli diretti con questi paesi e perché abbiamo una comunità molto poco numerosa di stranieri originari dei paesi colpiti da Ebola. Questo vuol dire che la probabilità di contatto con questi paesi è proporzionalmente ridotta dalla ridotta proporzione di residenti qui da noi che possono andare a trovare i parenti e tornare a casa. Noi rimaniamo in una condizione a rischio decisamente basso. Inoltre, i sistemi occidentali, non solo quello italiano, hanno delle capacità di contenimento infinitamente superiori a quelle dei paesi in cui è nata l’epidemia».

L’unità operativa del Sacco per le malattie infettive, diretta da Galli, è una delle più attrezzate in Italia, e se si presentasse un caso di Ebola probabilmente andrebbe a finire lì. La grande paura del primario che questo avvenga è data dall’impotenza in cui si troverebbe nel curare un paziente infettato, dato che le scorte di Zmap (l’anti-siero che ha dato buoni risultati nel trattamento di Ebola) in questo momento non sono disponibili. Per quel che riguarda il contenimento, invece, il professore è convinto che, rispettando il protocollo di emergenza, il rischio sia molto limitato.

«Come si è visto, gli americani sono riusciti addirittura a mandare a casa dal pronto soccorso uno che diceva di arrivare dalla Liberia (Duncan, ndr) e di aver la febbre, e a violare il protocollo per quel che riguarda l’infermiera infettata» spiega Galli «e gli spagnoli, pur ricevendo un paziente di cui sapevano già lo stato di malattia, approcciato con tutti i criteri, hanno avuto anche loro una violazione del protocollo, tanto è vero che si è infettata un’altra infermiera. Rispettando i protocolli non dovrebbe succedere nulla, a parte l’errore umano o l’elemento imponderabile».

Marco Di Lauro/Getty Images

Il pericolo Ebola è stato collegato – e in alcuni casi politicamente strumentalizzato – agli sbarchi di migranti sulle coste italiane. Eppure la tragedia umanitaria in corso nel Mediterraneo non ha un legame con la diffusione dell’epidemia. «Vorrei sgombrare il campo, una volta per tutte, dalle voci sul rischio d’infezione proveniente dai migranti che arrivano con gli sbarchi» tiene a far sapere il professor Galli «per due buonissimi motivi. Il primo è che coloro che parlano di questi arrivi come un rischio potenziale dovrebbero informarsi meglio in merito alla provenienza di chi è costretto a percorrere questa via. Se andiamo a vedere i numeri, dei circa 120 mila immigrati arrivati nei primi otto mesi di quest’anno, vediamo che la grande maggioranza è composta da siriani, somali ed eritrei. Seguono le persone che arrivano dal Sudan, dal Mali e dal Senegal. Tutte aree che non sono implicate nell’epidemia. Si aggiunga poi che il viaggio via terra, a cui si devono sottoporre la maggior parte di loro, è un attraversamento talmente lungo che, considerato il tempo massimo di tre settimane d’incubazione della malattia (ma di solito minore di una settimana), si ammalerebbero e morirebbero prima di arrivare qui. Togliamo di mezzo questo tormentone perché su Ebola non ha nessun senso ritirarlo in ballo».

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