La spia iraniana che combatte l’Isis in Iraq

La spia iraniana che combatte l’Isis in Iraq

In Iraq i peshmerga curdi e le milizie sciite non sono soli a combattere i jihadisti dello Stato Islamico: ad appoggiarli è la Quds Force, unità speciale dei pasdaran (i guardiani della rivoluzione iraniani) agli ordini del generale Qasem Soleimani. La Quds Force è una brigata d’élite a metà strada tra la Cia e le Special Forces americane. Creata dall’Ayatollah Khomeini durante la guerra tra Iran e Iraq del 1980-88 con il compito di difendere, e soprattutto di esportare la rivoluzione iraniana, questa brigata ha operato sotto copertura in vari scenari mediorientali e mondiali. Come unità d’intelligence ha supportato e addestrato tutte le fazioni alleate dell’Iran, dall’Hezbollah libanese ai reparti scelti di Bashar Assad, passando per le milizie sciite contro l’occupazione americana in Iraq all’alleanza del Nord di Ahmed Sha Massoud contro i talebani in Afghanistan. Come reparto operativo ha effettuato diverse missioni-ombra in tutto il mondo per eliminare i nemici dell’Iran, a cominciare da Israele.

Oggi la Quds Force sta avendo un ruolo importante nella guerra irachena, e il suo comandante sta ricevendo una visibilità senza precedenti. Come ha dichiarato un ufficiale della Cia a Dexter Filkins, giornalista del New Yorker che l’anno scorso ha scritto un lungo servizio sul “Comandante ombra”: «Soleimani è il soggetto operativo più potente del Medio Oriente, e nessuno ha mai sentito parlare di lui». In questi giorni, al contrario, Soleimani si è fatto fotografare in più occasioni sul campo di battaglia, abbracciato a miliziani curdi e sciiti, esibendo un comportamento senza precedenti per un uomo che si è fatto sempre e solo vedere in ambiti ufficiali a Teheran. A fine agosto erano girate delle voci che lo vedevano decaduto a favore di Hossein Hamedani, il suo vice, in seguito alla deposizione di Nouri al-Maliki, il premier iracheno supportato dall’Iran.

Secondo Guido Olimpio, giornalista di esteri del Corriere della Sera esperto d’intelligence, ci sono almeno due motivi dietro a questo nuovo modo di mettersi in mostra di Soleimani. «È interessante questa sua esposizione mediatica, perché è piuttosto rara» spiega Olimpio «il fatto che appaia così spesso e così di frequente in Iraq indica due cose: intanto che si vogliono smentire le voci che dicevano che poteva essere stato rimosso o messo da parte nell’ambito delle faide iraniane. In secondo luogo la sua figura viene usata per fini propagandistici. È evidente che gli iraniani sono presenti in Iraq, però così la cosa viene pubblicizzata. Soleimani ha fatto il giro delle sette chiese: si è fatto vedere prima ad Amerli, dove c’è stata l’operazione congiunta tra americani curdi e sciiti. Poi l’abbiamo rivisto con i curdi del Puk (Unità patriotica del Kurdistan), guarda caso quando escono le notizie che gli iraniani hanno dato le armi al Puk. Dopo con le milizie sciite, che sono la sua longa manus. In sostanza, questo ancora più si lega con le supposizioni di questi giorni. Molti dicevano che a Teheran non erano contenti di come avesse gestito il dossier Iraq sia dal punto di vista politico che militare».

Nella guerra contro l’Isis, l’elemento mediatico e propagandistico è centrale. Lo abbiamo visto con i video dell’Isis e con il linguaggio studiato nei dettagli che i jihadisti usano per fare proseliti. Ma lo si vede anche negli organi d’informazione di tutti i Paesi della zona, che cercano il più possibile di portare acqua al loro mulino. In questo l’Iran non fa eccezione. Il rilancio mediatico di Soleimani dimostra come Teheran stia cercando di fare leva sul fatto che i suoi uomini sono gli unici sul campo a tenere a bada l’Isis, e che l’Iran è l’unica nazione dell’area con i “boots on the ground”. «Il nostro grande comandante, il generale Soleimani, ha fermato l’avanzata dell’Isis con settanta uomini, impedendogli di entrare a Erbil (la capitale del Kurdistan iracheno, ndr)» ha riferito un generale iraniano alla Reuters. Ora, che questi dettagli siano veri o no – secondo Olimpio è strano che un personaggio importante come Soleimani combatta in prima linea – non cambia il fatto che Teheran stia usando l’affascinante e influente figura di Soleimani per fini propagandistici.

«L’emergere di Soleimani evidenzia la grossa differenza tra il modo in cui Washington e Teheran stanno cercando di dipingere i rispettivi ruoli nella battaglia contro lo Stato Islamico» scrive Shioban o’Grady su Foreign Policy del 14 ottobre «Mentre gli Stati Uniti minimizzano il loro coinvolgimento negli attacchi contro i jihadisti nascondendosi sotto l’ombrello di una fragile coalizione, il governo iraniano sta prendendo un approccio totalmente differente: si vanta dei suoi successi in Iraq e prova a comunicare che l’Iran, non gli Stati Uniti, merita credito per le recenti vittorie».

In questa inedita campagna mediatica, per rassicurare gli iraniani che il governo sta prendendo sul serio lo Stato Islamico, e per mandare un messaggio alla comunità internazionale, non c’è nessuno migliore di Soleimani: venerato in patria e temuto all’estero. Il generale è soprannominato il “martire vivente”, titolo conferitogli in esclusiva direttamente dalla Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei. La protezione e la benevolenza della carica massima iraniana sono anche alla base della brillante carriera di Sulemaini e della sua mitizzazione. 57 anni, di piccola statura, barba e capelli argentati, il generale si è fatto le ossa nella guerra contro l’Iraq degli anni ’80, la “Sacra Difesa”, quando portava l’acqua ai soldati che combattevano sul fronte. Sul finire della guerra – che ha lasciato più di un milione di morti sulle trincee del confine – il giovane Qasem, non ancora trentenne, era già a capo di una brigata. Dieci anni dopo, nel 1998, Soleimani è nominato capo della Quds Force, che nel frattempo era stata implicata in varie missioni in tutto il mondo: Afghanistan, Libano (con Hezbollah), Israele, Sud America, le brigate Quds diventano uno dei reparti speciali più temuti al mondo.

Tramite una vasta rete di legami con le varie strutture di potere iraniane, Soleimani è riuscito a mantenere un grandissimo potere, e per un tempo insolitamente lungo nel complesso gioco politico iraniano. «Ha stretto nodi in ogni angolo del sistema» ha dichiarato Meir Dagan, ex- direttore del Mossad israeliano, a Dexter Filkins del New Yorker «É una figura “politicamente intelligente”, ha relazioni con tutti».

Quando nel 2003 gli Stati Uniti invadono l’Iraq, Soleimani dà il via a una campagna di sabotaggio attraverso l’addestramento e il supporto delle milizie sciite, che, armate dagli iraniani, diventano velocemente l’avversario più pericoloso per l’esercito americano. Non c’è solo il dossier nucleare a impedire un riavvicinamento tra Washington e Teheran. C’è anche una lunga guerra tra intelligence che ha incrinato i rapporti tra i due Paesi, in particolare a livello militare. Alla fine del 2011 Barack Obama ritira le truppe dall’Iraq, e contemporaneamente le manifestazioni della primavera araba siriana si trasformano in guerra civile. Il regime di Bashar Assad, alleato chiave dell’Iran, è a serio rischio e Soleimani viene mandato a supporto delle forze regolari siriane. Ma nel frattempo il generale non trascura il resto del mondo: «Soleimani ha orchestrato, solamente dal 2011 al 2013, almeno una trentina di colpi, in Thailandia, New Delhi, Lagos e Nairobi. Il più noto è stato un piano, nel 2011, per assoldare un cartello messicano che facesse saltare in aria l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti in un ristorante a poche miglia dalla Casa Bianca» scrive Filkins.

Ma è in Siria che la Quds Force risulta veramente determinante. Spiega Olimpio che: «Nella guerra civile siriana, Soleimani ha avuto un ruolo fondamentale: se il regime ha tenuto botta, e anche adesso sta recuperando terreno, è perché il generale ha rinforzato Assad, riorganizzando le sue milizie. L’esercito siriano, tranne le brigate scelte e qualche altro reparto, è stato svuotato. I soldati semplici vengono lasciati al fronte a prendersi i colpi. E intanto si è formata una sorta di milizia popolare sul modello di Hezbollah. Certamente Soleimani ha avuto una parte importante nel formarla. Basta vedere i morti: i molti iraniani Hezbollah che muoiono in Siria sono indicativi del loro ruolo e del loro coinvolgimento».

Non è chiaro quanti uomini delle brigate Quds combattano direttamente sul campo. Quel che è sicuro è che gli uomini di Soleimani forniscono addestramento, supporto in armamenti, consiglieri e informazioni alle forze amiche che combattono l’Isis in Siria e in Iraq. Il problema è che in molti casi (vedi Assad) gli amici dell’Iran non sono anche gli amici degli americani. Anche per questo la situazione in Siria è più imbrogliata che in Iraq. D’altra parte, mentre gli scontri tra Assad e le milizie ribelli si stanno in qualche modo cristallizzando su posizioni stabili, in Iraq la situazione è ancora molto traballante. A Teheran vogliono un eroe sul campo, e Soleimani è l’eroe iraniano per eccellenza. Così, mentre il mondo critica l’efficacia dei bombardamenti americani, in Medio Oriente il “comandante-ombra” è sempre più sotto i riflettori, a fare la parte della star.

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