Il petrolio costa pochissimo ma c’è poco da festeggiare

Il petrolio costa pochissimo ma c’è poco da festeggiare

Il crollo del prezzo del petrolio aiuterà la ripresa dell’economia globale. Ne è convinta Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. La caduta delle quotazioni del greggio «è una buona notizia in un momento in cui il mondo è alle prese con il problema di una crescita troppo lenta». Ottimismo condiviso anche Credit Suisse. Per il servizio studi della banca elvetica «la diminuzione (del prezzo del petrolio, ndr) registrata finora dovrebbe aggiungere uno 0,6-0,8% alla crescita di Europa e Giappone e avere un impatto positivo sulla fiducia dei consumatori». Il dato di fatto, invece, è che poco più di cinque mesi l’oro nero si è deprezzato del 25%, scendendo sotto i 70 dollari al barile per la prima volta dal 2010. Un tracollo che ha effetti sui consumatori ma anche conseguenze importantissime dal punto di vista economico e geopolitico.

Figura 1 – Fonte: The Economist

Per Christine Lagarde il crollo del prezzo del petrolio aiuterà la ripresa dell’economia globale

Le cause che possono spiegare questo calo prolungato sono diverse. L’economia globale non cresce abbastanza. Europa e Giappone arrancano e questo fa diminuire automaticamente la domanda di petrolio. L’International energy agency (Iea) ha rivisto al ribasso l’incremento della domanda di greggio. Gli analisti dell’agenzia parigina hanno tagliato le stime sulla domanda per il 2015 con una riduzione di 90mila barili al giorno. C’è poi il boom dello shale oil americano. Dal 2005 la produzione di petrolio statunitense è quasi raddoppiata; il Canada ha aumentato la propria produzione da 2,5 milioni di barili al giorno, nel 2009, a oltre 3,3 milioni nel 2013.

Grazie allo shale gas gli Stati Uniti si sono trasformati da Paese importatore a primo produttore mondiale

Grazie agli idrocarburi estratti dalle rocce attraverso la perforazione idraulica, gli Stati Uniti si sono trasformati da Paese importatore a primo produttore mondiale. Così facendo hanno saturato il più grande mercato mondiale del greggio mettendo in grossa difficoltà chi vende petrolio negli Stati Uniti. Chris Mooney del Washington Post ha poi fatto notare che le auto sono diventati più efficienti così da ridurre l’uso del carburante. Nel 2008, si facevano 32,1 chilometri con un gallone (3,78 litri) di benzina, mentre nel 2013 sono diventati 40,2. Inoltre, come aveva già spiegato Linkiesta, le tensioni geopolitiche e l’instabilità legata ai conflitti che coinvolgono i Pesi produttori di greggio non fanno paura agli investitori.

I sauditi sono convinti di poter resistere anche con il petrolio al di sotto dei 70 dollari. È diverso per Russia, Iran, Nigeria

Un calo dei prezzi così prolungato e deciso ha messo in difficoltà le economie dei Paesi produttori. Per questo si è creata una grande attesa attorno alla riunione dell’Opec, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, del 27 novembre scorso Il cartello di 12 paesi produttori che ha una grandissima influenza sul mercato energetico mondiale perché controlla oltre il 40% della produzione globale di oro nero. Durante la riunione di Vienna si è deciso di non ridurre la produzione del petrolio, che rimarrà di 30 milioni di barili dal giorno e, quindi, di non contrastare la caduta del prezzo del petrolio riducendo l’offerta. Ha prevalso la linea dell’Arabia Saudita (e delle altre petromonarchie del Golfo Persico), primo produttore mondiale che vale da solo un terzo del totale Opec. I sauditi sono convinti di poter resistere anche con il petrolio al di sotto dei 70 dollari. A Rihad hanno riserve finanziarie enormi che consentono loro di provvedere al bilancio statale e di finanziare le attività internazionali. Discorso totalmente diverso per altri petrostati come Nigeria, Iran e Russia. Per questi Paesi si prospettano grossi problemi economici. La situazione non sembra destinata a cambiare in tempi brevi.

I Paesi produttori dovranno affrontarsi in una guerra dei prezzi per conservare le vecchie quote di mercato

Sul mercato mondiale il petrolio non manca e i Paesi produttori dovranno affrontarsi in una guerra dei prezzi per conservare le vecchie quote di mercato. Secondo un’analisi dell’Economist anche il primo trimestre del 2015 sarà all’insegna dei prezzi bassi che rischiano di mettere in difficoltà bilanci statali e consenso politico. Come ha scritto Alberto Negri sul Sole 24 Ore, la decisione dell’Opec si presta anche a una lettura non puramente economica ma legata ai rapporti dell’Arabia Saudita con gli storici alleati americani. «I sauditi stanno orchestrando da alcuni mesi una manovra con conseguenze assai gradite agli americani: creare altri problemi a Russia e Iran, due Stati nemici e sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci da gas e petrolio. I proventi energetici contano per il 60% del bilancio di Teheran, per il 50% in quello di Mosca». Non tutti gli analisti condividono questa lettura. La mossa di Vienna potrebbe trasformarsi in un grosso problema per gli americani. Tenere il greggio dell’Opec a 70 dollari significa tagliare fuori dalla concorrenza gli Stati Uniti. Con la quotazione verso i 60 dollari al barile, lo shale oil sarebbe fuori mercato visto che ha costi di estrazione notevolmente più alti rispetto al petrolio convenzionale. Con questa quotazioni ci saranno tagli agli investimenti in nuove tecnologie. Su Foreign Policy, Keith Jhonson cita una fonte del governo iraniano spiegando che il primario interesse dei sauditi è quello di uccidere il boom americano dallo shale oil.

Nel nostro Paese bisogna fare i conti con una componente fiscale che arriva al 60% del prezzo finale

A rimetterci sono certamente le grandi major del petrolio. Secondo il Wall Street Journal e 10 più importanti compagnie energetiche hanno registrato perdite pari a 75 miliardi di dollari. Va meglio per i consumatori che possono approfittare di un aumento del proprio potere d’acquisto e per le imprese che possono risparmiare sull’acquisto di greggio dall’estero. Anche i bilanci statali dei Paesi importatori avranno benefici. L’Italia importa quasi il 93% del petrolio che consuma. Già da mesi l’Arabia Saudita ha deciso di praticare forti sconti per Europa, America e Asia. L’Iran fa la stessa cosa per i suoi clienti asiatici. Una riduzione del prezzo dell’oro nero significa anche risparmiare sul carburante. Questo è vero soprattutto per gli automobilisti americani. In Italia il prezzo del carburante cala ma in proporzione molto meno rispetto a quello del petrolio. Nel nostro Paese bisogna fare i conti con una componente fiscale che arriva al 60% del prezzo finale. L’incidenza del costo del petrolio è insufficiente e anche un calo del prezzo rilevante come quello degli ultimi mesi non si traduce in un consistente risparmio. 

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