Si fa presto a dire Nutella. La crema alle nocciole e cacao la conosciamo tutti, ma non tutti sappiamo che la versione che finisce nei nostri barattoli è diversa da quella che arriva sugli scaffali americani. Non è un mistero, anche se le informazioni al riguardo sono sempre state date col contagocce. Alla materia si sono dedicati in molti, a partire dal Washington Post, che ha pubblicato al riguardo un lungo articolo. L’autore, il giornalista gastronomico Jim Webster, è partito dalle differenze di gusto (più dolce quella americana, fabbricata in Canada, più al sapore di nocciole quella importata dall’Italia) e di consistenza (più liquida l’americana, più dura quella italiana) che si riscontrano una volta tolta la foglia dorata dalla confezione. In seguito, con l’aiuto di uno chef, ha cercato di ricostruire le dosi degli ingredienti, che sono presenti in quantità diverse. Se nell’etichetta italiana si scrive chiaramente la percentuale di nocciole, latte scremato in polvere, cacao in polvere a basso contenuti di grassi, in quella made in Canada non è richiesto. Nell’etichetta americana si specifica però che l’olio utilizzato è di palma, mentre in quella nostrana ci si limita a parlare genericamente di oli vegetali. Il verdetto, per la cronaca, è stato favorevole alla versione italiana, in quell’articolo come in altri sullo stesso tema.
Come ha sottolineato un recente intervento di Massimiliano Bruno, responsabile Food Beverage Knowledge Center della Sda Bocconi School of Management, Nutella viene viene commercializzata in cinque differenti ricettazioni. Ma il caso della crema alle nocciole non è che un esempio di una tendenza nell’ambito dell’international marketing che si potrebbe sintetizzare in uno slogan: stesso marchio, prodotti diversi nel mondo. «È una evidenza – si legge nell’intervento – che, nonostante numerosi autori di management abbiano sostenuto che sia preferibile e possibile omogenizzare e standardizzare la propria offerta e i propri prodotti e/o servizi, la maggioranza delle aziende ritiene più efficace modificarli e adattarli alle caratteristiche ed esigenze dei diversi Paesi in cui operano, sia in termini di ricette che di formato, spesso utilizzando anche brand differenti per prodotti simili».
Un barattolo di Nutella italiana (a sinistra) e americana (a destra) 30 minuti dopo una cucchiata. La differenza di consistenza è evidente. Dal blog Knitstamatic
Un nome, diversi prodotti
La forma più evidente del fenomeno, chiamato “localizzazione”, è quando a variare sono la ricettazione e i gusti dei prodotti. «Esistono esempi evidenti – scrive Bruni – , come quelli di Viennetta, la torta dessert di Algida che in Italia viene commercializzata nei supermercati nei gusti vaniglia, zabaione, choco nut, crème brulée e tiramisù, mentre in Gran Bretagna, oltre alla vaniglia, si possono acquistare i gusti menta o fragola. A volte, però, le differenze non sono così evidenti, come nel caso di Nutella». La scelta di preferire la via dell’adattamento alla standardizzazione pura riguarda anche prodotti insospettabili come Coca-Cola. Come hanno mostrato Justin Paul e Ramneek Kapoor nel loro volume “International Marketing” (Tata-McGraw-Hill), la bevanda è più dolce nei Paesi del Medio Oriente, per venire incontro ai gusti locali. Altre varianti riguardano sensibilità religiose. Ci sono poi modifiche non volute ma imposte dalle varie leggi nazionali. È questa la ragione delle differenze di gusto dei prodotti Cadbury in giro per il mondo, secondo lo stesso gruppo dolciario britannico.
Se non cambiano le ricette, possono farlo le grammature, cioè le dimensioni e le porzioni dei prodotti, le quali possono variare per tenere conto degli stili di consumo nei diversi Paesi.
Menù glocal
Anche le imprese che operano nella ristorazione collettiva o le catene di fast-food hanno imparato a cambiare l’offerta in base a dove si insediano. «Un esempio emblematico è offerto da McDonald’s – continua Bruni – che in Italia propone insalate di pasta fredda, messe a punto insieme a Barilla, e numerosi sandwich in cui vengono impiegate materie prime ricercate e prodotti dop delle tradizioni nazionali, quali il parmigiano reggiano, lo speck, altri formaggi e salumi particolari, così come recentemente i panini con la salamella». La catena di fast-food di Oak Brook decise di far capire a tutti questra strategia nel 2011, quandò affidò allo chef Gualtiero Marchesi il compito di creare due hamburger (Adagio e Vivace) e un tiramisù al panettone. Il rumore fu assicurato: bene o male che se ne parlasse, il messaggio era arrivato a tutti.
Algida chi?
Il terzo tipo di adattamento è forse quello meno intuitivo: avviene quando c’è il cambio del nome del prodotto o perfino della marca. Lo scopi in questo caso è, spiega il professore, è «attingere al patrimonio di conoscenza e di relazione che queste hanno con i clienti finali». Un esempio è dato da Algida, il cui logo è presente in molti Paesi stranieri, ma il cui nome è ignoto, essendo sostituito da Walls.
Quello che forse non è intuitivo è che questa “localizzazione” non è in contrasto con la globalizzazione ma ne è una caratteristica. «Che l’azienda sia una multinazionale o un’azienda di piccole-medie dimensioni non fa differenza – spiega Bruni nel suo intervento -. Sono spesso le aziende più grandi, anzi, che hanno meglio compreso la necessità di modificare la propria offerta ai bisogni e alle richieste locali e sono anche le organizzazioni che dispongono più facilmente delle risorse necessarie per attuare simili strategie, anche se le spinte alla globalizzazione e alla standardizzazione sono per loro ancora più forti».
Ma perché si arriva a queste decisioni? «La ricerca di preziose economie di scala e di semplificazione dei processi produttivi, distributivi, di marketing e di comunicazione si scontra con la volontà e la necessità di cogliere al massimo le opportunità di business che ciascun mercato offre», argomenta Bruni. «Ciò è certamente vero nel mondo del food&beverage, dove gusti, fattori culturali, tradizioni e differenze climatiche dominano ancora oggi nelle scelte e nelle occasioni e modalità di consumo dei clienti finali». Basta dare uno sguardo ai listini delle automobili nei diversi continenti per capire che le differenze in quel settore sono ancora più notevoli, tanto che la vera novità è quando si crea una macchina in grado di essere venduta con le stesse caratteristiche in tutti i continenti.