Siamo bravi a far crescere talenti, ma non ad attirarli, tantomeno a valorizzarli e trattenerli. Secondo il Global Talent Competitiveness Index, l’indice che misura la capacità di un Paese di attrarre le migliori menti in circolazione, l’Italia si trova solo al 36esimo posto. E i numeri sui giovani in fuga dall’Italia ce lo confermano. La ricerca mostra come il nostro Paese offra sì ai suoi ragazzi una solida educazione. Ma dopo la scuola, con un sistema economico e normativo incerto e una scarsa apertura all’esterno, non riusciamo a offrir loro dei solidi motivi per restare, né convinciamo altri talenti a trasferirsi da noi.
La ricerca, realizzata dallo Human Capital Leadership Institute di Singapore in collaborazione con Adecco, ha classificato la Svizzera al primo posto, seguita da Singapore e Lussemburgo. seguono Stati Uniti, Canada, Svezia, Regno Unito, Danimarca, Australia e Irlanda. Per stilare l’indice di competitività, sono state analizzate le economie di 93 Paesi che rappresentano l’83,8% della popolazione del pianeta e il 96,2% del Pil di tutto il mondo. Dall’analisi viene fuori che una focalizzazione sulle “competenze per l’idoneità al lavoro” e un investimento continuo sulla formazione professionale sono le basi per il successo nello sviluppare, attrarre e non far scappare i talenti migliori.
La classifica, come nel 2013, è dominata dai Paesi europei, con solo sei Paesi extraeuropei nella top 20: Singapore (2), Stati Uniti (4), Canada (5), Australia (9), Nuova Zelanda (16) e Giappone (20). I Paesi che rientrano nelle prime 20 posizioni sono tutti Paesi ad alto reddito, che sono anche quelli con le migliori università e una maggiore capacità di attrarre i talenti stranieri grazie a una migliore qualità della vita e retribuzioni più alte.
L’Italia appartiene alla regione europea ed è classificata come Paese ad alto reddito, ma scivola in basso nella classifica in termini di competitività. I concorrenti più vicini all’Italia, considerando le similitudini fra i dati relativi a popolazione e Pil procapite, sono Spagna e Francia. Il punteggio dell’Italia, però, è inferiore a quello di entrambi i concorrenti e risulta anche più basso di quello del Portogallo. La conclusione è che l’Italia non tiene il passo nella capacità di attirare talenti e creare i giusti presupposti per farli crescere, offrendo cioè un contesto normativo e di mercato adeguato che promuova concorrenza, innovazione e affari. La posizione italiana è bassa per innovazione tecnologica (78), rapporti tra governo e imprese (91 su 93), facilità di fare impresa (49), investimenti esteri (85), capacità di attrarre talenti dall’estero (77), capacità di trattenere talenti (73), parità di stipendi uomo-donna (60), mobilità sociale (79), investimenti in formazione professionale (87), disponibilità di delegare autorità ai subordinati (87), impatto della tassazione per incentivare il lavoro (92), relazione tra pagamenti e produttività (91).
Il principale gap dell’Italia rispetto ai Paesi ai vertici del ranking è rilevabile nella capacità attirare talenti che dipende, secondo i ricercatori, dall’esistenza di un contesto commerciale dinamico, disciplinato da normative adeguate, e di mercati del lavoro flessibili. Siamo al primo posto solo nella capacità di sviluppare i distretti produttivi, unico fiore all’occhiello dell’economia italiana. Ma siamo tra i primi (sesto posto) anche nella capacità di far crescere i talenti, grazie alla buona istruzione del nostro sistema educativo. Ma la disponibilità di capacità superiori (operai specializzati e output della ricerca) non è al livello dei migliori Paesi ad alto reddito.
«È sorprendente il fatto che tra i tre Paesi in testa alla classifica (Svizzera, Singapore e Lussemburgo) due siano Paesi senza sbocco sul mare e uno sia un’isola», ha commentato Bruno Lanvin, direttore della Business School Insead, che ha partecipato alla ricerca. «Dovendo far fronte a sfide geografiche specifiche e a una quasi totale assenza di risorse naturali, questi Paesi non hanno avuto scelta se non quella di optare per economie aperte, un ingrediente essenziale per essere competitivi a livello dei talenti». Molte delle economie della top 20, come Stati Uniti, Svezia e Regno Unito, sono anche caratterizzate da radicate tradizioni di immigrazione.
Una delle variabili più tenute in considerazione è la qualità della formazione professionale. Un esempio: a 15 anni oltre il 70% degli studenti in Svizzera, in testa alla classifica, opta per l’apprendistato, combinando l’esperienza lavorativa con la scuola tradizionale. E nell’attuale governo svizzero metà dei ministri proviene da un percorso di studio di tipo professionale, che quindi non è una formazione di serie B come spesso viene vista in Italia.
Ma questo accade in Svizzera, in altri Paesi esiste un gap tra le competenze offerte dal sistema educativo e le esigenze del mercato del lavoro. Il risultato, come ha ricordato l’amministratore delegato di Adecco Group, è che «nonostante 33 milioni in cerca di un lavoro negli Stati Uniti e in Europa, sono oltre 8 milioni i posti di lavoro ancora scoperti. Contemporaneamente in alcuni Paesi d’Europa persiste una disoccupazione giovanile pari a oltre il 50 per cento». Anche il Italia, con la disoccupazione giovanile alle soglie del 44%, «un’alta percentuale di giovani che si stima compresa tra il 18 e il 20% dei disoccupati continua a non trovare lavoro non per colpa della recessione», spiega Federico Vione, amministratore delegato di Adecco Italia, «ma a causa del crescente gap tra competenze offerte dal mondo dell’istruzione e competenze richieste dalle aziende».