La notizia, resa nota il 28 gennaio, ha già fatto il giro del mondo: Don Thompson, l’amministratore delegato e presidente di McDonald’s, ovvero il capo assoluto della più grande e potente catena di ristoranti al mondo, si ritirerà dall’attività a partire dal primo marzo dell’anno in corso, dopo venticinque anni al servizio del gigante dei fast food. Ad annunciarlo, è stata la compagnia stessa, con un comunicato stampa firmato dal board di McDonald’s Corporation, nel quale è stato reso noto anche il nome del suo sostituto, Steve Easterbrook, di nazionalità britannica, già alla guida della compagnia in Regno Unito ed Europa.
L’amministratore delegato dimissionario di McDonald’s, Don Thompson, in basso a destra, e la presidente Jan Fields, in basso a sinistra, nel villaggio olimpico durante di Giochi di Londra 2012 (Flickr / McDonald’s Corp)
A dispetto delle consuete dichiarazioni di circostanza che addolciscono la nota stampa di McDonald’s, e delle ottime credenziali di Easterbrook, non si tratta di un evento di poco conto. Anzi, rappresenta un segnale di allarme – l’ultimo di una lunga serie – sullo stato di salute dell’azienda fondata da Ray Croc nel 1955: l’annuncio del ritiro (o del siluramento, a seconda dei punti di vista) del 51enne Thompson, in carica come Ceo dal 2012, è infatti avvenuto a soli due giorni di distanza dalla pubblicazione, da parte della stessa compagnia, di alcuni dati finanziari che mostravano una delle peggiori performance della sua storia recente, un impressionante declino nelle vendite e negli introiti.
Il siluramento di Thompson è avvenuto due giorni dopo la pubblicazione di dati che mostravano una delle peggiori performance della storia recente di McDonald’s
Nell’ultimo periodo finanziario, gli incassi sono scesi del 7% (6,6 miliardi di dollari), mentre i guadagni del 21% (1,1 miliardi, rispetto agli 1.4 dell’anno precedente). Ai piani alti di Oak Brook, non si vedevano numeri così bassi da anni, a conferma di una crisi già riportata da qualche tempo. Nonostante i tentativi di prendere contromisure nel recente passato, il trend non sembra essere cambiato, e gli stessi dirigenti di McDonald’s, negli States, hanno affermato che la fase negativa potrebbe durare almeno fino a metà 2015, come riportato dal New York Times.
Novità gustose nei menu, modernizzare l’esperienza dei clienti, orari più lunghi, prezzi minori: erano gli obiettivi ambiziosi di Thompson
Ottimizzare il menù, con novità gustose. Modernizzare l’esperienza provata dal cliente attraverso un rinnovamento generale e l’uso delle nuove tecnologie. Ampliare l’utenza grazie a più lunghi orari di apertura e più location sul territorio. Il tutto, con una complessiva riduzione dei prezzi. Erano questi i tre obiettivi che Thompson (il quale iniziò la sua militanza da McDonald’s da ingegnere elettrico nel 1990) si era posto, non appena nominato Ceo dell’azienda. Insomma, una ricetta per far sì che una delle società più conosciute al mondo restasse al passo con i tempi. Traguardi che evidentemente sono stati raggiunti solo in parte. Tuttavia, non sembra essere questo il problema principale del brand, né la chiave di lettura per i recenti e deludenti risultati.
Il ceo dimissionario di McDonald’s, Don Thompson, l’ex presidente Usa Bill Clinton e Howell Wechsler, ceo della Alliance for a Healthier Generation, settembre 2013 (Flickr / McDonald’s Corp)
Con il senno di poi, alla luce dei dati del mercato, l’impressione è che McDonald’s, negli ultimi anni, abbia mancato un altro bersaglio, forse quello più importante: venire incontro ai gusti dei clienti. E, di conseguenza, subire l’avanzata della concorrenza. Non solo di chi ha – comprensibilmente – cavalcato l’ondata (leggi: ossessione) del cibo salutare-organico-naturale.
McDonald’s, negli ultimi anni, ha mancato un altro bersaglio, forse quello più importante: venire incontro ai gusti dei clienti
Ma anche di quei marchi del suo stesso settore, come Wendy’s e Sonic, fast food a stelle e strisce per antonomasia, che hanno aumentato il loro peso: nel terzo periodo fiscale, a fronte di un meno 3,3% nelle vendite per McDonald’s, si rilevano i segni positivi di Burger King (+1,4%), Yum! Brands del trio Pizza Hut-Kfc-Taco Bell (+1%) e, soprattutto, il sorprendente +19,8% della catena di menù messicani Chipotle. Senza dimenticare, ovviamente, l’inarrestabile ascesa di Shake Shack, in questi giorni protagonista di un’entrata trionfale a Wall Street. Certo, i numeri totali non sono ancora paragonabili, e le distanze sono abissali: le entrate di Shake Shack nei primi nove mesi del 2014 sono pari a quello che McDonald’s introita in un solo giorno. Tuttavia, molti dei nuovi clienti dei brand emergenti sono ex clienti McDonald’s, e lo stesso Washington Post ha notato che, se la crescita di Shake Shack dovesse continuare con questi ritmi, a Oakbrook farebbero meglio a prendere seri provvedimenti.
La quotazione della catena di hamburger newyorchese Shake Shack a Wall Street, il 30 gennaio 2015. Le azioni sono salite del 130% subito dopo il debutto. Migliaia di panini sono stati distribuiti nei paraggi della Borsa (Spencer Platt/Getty Images)
Le difficoltà, dunque, non sono legate al concetto di “fast food”, ancora vivo e vegeto. Piuttosto, è una questione di gusti. E non è un caso se, in un recente sondaggio, gli utenti americani abbiano relegato i prodotti e gli hamburger di McDonald’s all’ultimo posto in una classifica di gradimento. Tutto ciò conferma che, per l’azienda, questo rappresenti un problema impossibile da sottovalutare, perché riguarda l’essenza stessa del sistema-McDonald’s, e urge pertanto partorire una strategia per risalire la china. Gli osservatori Usa si chiedono se il declino sarà duraturo, o solo di passaggio.
Steve Easterbrook, nuovo Ceo di McDonald’s (Flickr/McDonald’s Corp)
La palla è ora nelle mani di Easterbrook, che ha davanti a sé un compito alquanto difficile. Per alcuni, come per l’autorevole MarketWatch, una missione quasi impossibile. Per altri, come evidenziato dall’esperta Cristina Alesci di Cnn Money, un obiettivo che si può raggiungere, ma solo con una massiccia operazione di immagine e con una strategia che preveda migliori rapporti con i sindacati dei lavoratori. E magari con una imprevedibile vena di schiettezza: ammettere che forse i propri hamburger non sono i migliori sul mercato, ma sicuramente sono i più convenienti. Una strada azzardata, ma che potrebbe rappresentare una secca svolta per far cambiare verso le cose. Come recita uno dei suoi ultimi spot televisivi d’oltreoceano, “a little lovin’ can change the world”, “un po’ di amore può cambiare il mondo”. E l’amore dei clienti, in questo momento, è proprio ciò di cui McDonald’s ha forse più bisogno.