Il tempo del petrolio low cost è già finito? Ora che il prezzo «è intorno ai 40-50 dollari penso che forse abbiamo raggiunto il fondo e molto presto vedremo un rimbalzo», ha detto Abdullah El Badri, segretario generale dell’Opec, il cartello che riunisce i Paesi produttori. A margine di un convegno organizzato a Londra, Badri ha spiegato anche si potrebbe rispolverare l’idea di coordinare tagli alla produzione con altri Paesi non Opec. Parole che sembrano una mano tesa alla Russia, pesantemente danneggiata dal crollo del prezzo degli idrocarburi. Queste frasi hanno provocato un immediato, e breve, aumento del prezzo del barile nella giornata del 27 gennaio.
Per capire davvero cosa succederà sul mercato del petrolio bisogna guardare all’Arabia Saudita e alle intenzioni del nuovo sovrano, Salman bin Abdul Aziz al-Saud. Ryhad è il primo produttore mondiale di petrolio. A gennaio sono stati prodotti 9,6 milioni di barili al giorno, un mare di oro nero capace di soddisfare l’11 per cento della domanda globale. L’Arabia Saudita è il peso massimo dell’Opec, il gigante che sa dettare la linea agli altri petrostati riuniti nell’organizzazione nata nel 1960. È l’unico Paese produttore con la capacità di far aumentare o diminuire autonomamente la produzione globale di petrolio adattandosi alle mutevoli condizione del mercato globale degli idrocarburi. Esattamente quello che è successo nel vertice dello scorso novembre quando, nonostante il prezzo del greggio in picchiata, i sauditi hanno imposto di mantenere la produzione a 30 milioni di barili al giorno mettendo in grave difficoltà la tenuta economica di altri Paesi membri come il Venezuela e l’Iraq.
Figura 1 – Prezzo del petrolio nel 2014. Fonte Businessweek Bloomberg
Nel suo primo discorso alla televisione di stato come sovrano, Salman ha detto che non ha alcuna intenzione di cambiare linea sulla produzione di petrolio. Tuttavia, la morte dell’ex sovrano Abdullah è un evento potenzialmente destabilizzante. Quando è stata diffusa la notizia della sua morte, sul mercato dei future la quotazione del petrolio americano è aumentato di due dollari. Il brent, principale parametro di riferimento per la determinazione del prezzo sui mercati, è salito di 80 centesimi a 49,32 dollari. I giochi di potere e le faide interne alla famiglia reale saudita costituiscono una pesante incognita. La decisone di spingere al ribasso il petrolio ha provocato le critiche di alcuni membri della famiglia reale, preoccupati dalla riduzione del budget statale. Per la prima volta dal 2009 i sauditi devono affrontare un deficit di bilancio. Per evitare confusione attorno al futuro del Regno, il primo atto di Salman è stato quello di nominare il fratellastro Muqrin principe della corona e suo erede per placare subito i timori di una crisi successoria.
«Non credo che ci saranno novità sul prezzo del petrolio» ha detto a Vox Bob McNally ex funzionario della Casa Bianca e ora analista della società di consulenza Rapidan Group. «Certamente ora c’è una certa dose di incertezza su chi guiderà il Paese in futuro». E non si tratta di capire solo chi siederà sul trono di Abdullaziz Ibn Saud (l’uomo che ha riunito le tribù della penisola arabica e creato della dinastia che custodisce i luoghi sacri della Mecca e Medina) e per quanto tempo. Come scrive Reuters, dopo la successione al trono l’attenzione dei mercati ora si sposta su chi guiderà il potentissimo Ministero del petrolio. La morte di Abdullah è arrivata mentre è in atto uno dei cambiamenti più profondi sul mercato dell’energia degli ultimi decenni. Nei prossimi mesi bisognerà capire se ci sarà un nuovo ministro e se questo provocherà una nuova politica petrolifera. Di solito, tra i primi atti dei nuovi re sauditi c’è la nomina dei due ministri più strategici. Quello del petrolio e quello della difesa. Secondo Plats oil è improbabile che Salman sostituisca l’attuale ministro del petrolio, il potentissimo Ali Al Naimi. L’uomo che dal 1995 governa i destini petroliferi del mondo da Ryhad e che con l’ex sovrano Abdullah è l’architetto della strategia che ha condotto al crollo delle quotazione del greggio. Al Naimi ha più volte manifestato la sua intenzione di passare la mano ma nessuno pensa ad una sua sostituzione in tempi brevi. Come spiega Frank Verrastro del Center for Strategic and International Studies , Al Naimi «gode del rispetto dei mercati e ha grande autorevolezza». Quello che analisti e speculatori stanno cercando di capire e sei nei prossimi mesi ci sarà un nuovo ministro del petrolio e se questo provocherà una nuova politica energetica.
Figura 2 – Fonte The Economist.com. Per guardare il grafico ingrandito cliccare qui
L’interesse primario dei Saud è sempre stato quello di garantire una certa tranquillità sui mercati mondiali. Assicurare a tutti la capacità di approvvigionamento così da garantirsi flussi di cassa continui. Poi il boom dello shale nordamericano e una domanda debole a causa della recessione hanno fatto cambiare tattica ai sauditi. Di petrolio adesso ne circola troppo e l’Arabia Saudita rischiava che il suo ruolo di garante dell’approvvigionamento dell’oro nero non servisse più. L’Opec ha deciso di tenere invariata la produzione per fare la guerra ai piccoli produttori americani. Con il greggio ai livelli attuali gli idrocarburi estratti dalle rocce di scisto finiscono fuori mercato perché hanno costi di estrazione più alti. Quello condotto dai sauditi e dai loro alleati del Golfo Persico è un progetto a medio termine per contrastare non solo i piccoli produttori americani ma anche il petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada, i costosi progetti estrattivi nell’Artico, quelli al largo delle coste brasiliane e nei giacimenti offshore in Africa. Progetti che hanno un “breakeven”, il prezzo del barile sotto il quale l’estrazione non risulta più redditizia, molto superiore a quello dell’area mediorentale. I sauditi possono, quindi, permettersi di sopportare un lungo periodo di petrolio a basso costo mentre aspettano il riequilibrio di domanda e offerta. Possono farlo perché sono seduti su un tesoretto stimato in 745 miliardi di dollari che gli permette di fronteggiare il calo delle entrate petrolifere. Una volta eliminato dal mercato globale un surplus di oltre un milione di barili al giorno le petromonarchie del Golfo sperano che un costo del petrolio così basso possa stimolare una robusta crescita economica globale. Se le economie di Stati Uniti, Europa e Asia si rimettono a correre, la domanda globale di petrolio aumenta e l’Arabia Saudita può tornare a governare, come ha sempre fatto, il mercato del petrolio.