Ospite a Le invasioni barbariche, il fumettista, arrivato tra i dodici finalisti alla scorsa edizione del Premio Strega con il suo lastoria, ha parlato della sua esperienza con la satira, di quello che ha provato dopo i fatti di Parigi e di religione. E l’ha fatto da vero intellettuale. Come non ce ne sono più, quasi, in Italia
Non so perché, ma guardare Gipi mi rilassa, mi mette a mio agio. È come se guardassi me stesso allo specchio e non avessi paura. E perché, poi, ne dovrei avere. Quella naturale incertezza, le pause, i sorrisi stentati, gli occhiali sul naso, i capelli arruffati, la voce – soprattutto la voce: indescrivibile, a tratti profondi, a tratti più alta. Sale e scende.
Gipi è uno che, anche non volendo, sa mettere a proprio agio chi lo ascolta. Carismatico, attento, di una profondità rara e quasi impossibile da trovare. Dà pane al pane e vino al vino; fa esempi, gesticola. Parla con il suo interlocutore, ci discute se è il caso; e non manca di usare una sottile ironia ne dovesse aver bisogno.
Gipi non va spesso in televisione. Si contano sulla punta delle dita le sue apparizioni sul piccolo schermo. Ma quando lo fa, riesce a lasciare il segno. Ieri sera era ospite a Le invasioni barbariche, schiacciato tra il dilagante populismo di Renzi (che c’ha provato, sul serio, a dire qualcosa di più e a ergersi a sciorinatore moralista dell’italianità) e il finto giovanilismo di Fedez. Ha avuto pochi minuti; la Bignardi l’ha invitato – parole sue – per parlare di Charlie Hebdo e di quello che è successo a Parigi nemmeno una settimana fa. Gipi ha subito messo in chiaro che non era, e non è, coinvolto direttamente. Che tutto quello che ha provato, l’ha provato con sua grande sorpresa, perché non è solito – ha confessato – lasciarsi coinvolgere così tanto dai social e dalle notizie che “impazzano” sulla rete. Non è nelle sue corde.
È stato colpito dalla morte di Georges Wolinski, che aveva conosciuto e che apprezzava; e in generale, come tutti i fumettisti, da una morte che ha sconvolto l’intera categoria. Una categoria, se di categoria si può parlare, a lungo – e ancora in un certo senso – schiacciata dai pregiudizi e da una cultura sistematicamente restringente e non – come invece dovrebbe essere – “comprendente”.
Avrebbe dovuto parlare del dolore, delle sue emozioni, e invece Gipi ha fatto di più. Molto di più. Ha dato una lezione a una certa classe italiana, fatta di tante persone e di tanti mestieri (e mestieranti), sull’onestà, la posatezza e l’intelligenza. Ha parlato senza peli sulla lingua, eppure senza mai scadere nell’aggressività o nella rabbia. Ha parlato di dio (con la minuscola) con una lucidità unica. Profonda. Da ateo convinto, e soprattutto da essere umano incredulo. La metafora delle pulci – “anche le pulci hanno pulci” – è stata forse il momento più alto del suo spazio. La Bignardi, inquadrata appena dalle telecamere, è rimasta senza parole per qualche istante, poi ha preso ad annuire sorridendo. (In lei, ho rivisto anche la mia reazione.)
Un dio, se un dio c’è, non va per forza capito. Forse, non riusciremmo nemmeno a capirlo se lo incontrassimo. Però è assurdo che si arrivi ad uccidere in nome di una cosa invisibile, che non vediamo – e che siano le persone cosiddette “moderne” a farlo. Altrettanto illuminante – e non c’è retorica; è stata davvero illuminante – è stata la sua definizione di satira, che “va solo in una direzione”. Dal basso verso l’alto. Quando sono i potenti, o chi lavora per il potente, a farla, cambia nome, si trasforma, priva di senso e di scopo, e diventa prepotenza. Fascismo.
Insomma Gipi, che abbiamo imparato a conoscere per la sua sensibilità e la sua acutezza attraverso le sue opere, graphic novel e fumetti, corti e un film, L’ultimo terreste, si è rivelato essere uno dei pochi (o tanti, a seconda dei punti di vista) intellettuali che ci sono in Italia. Una guida, se preferite, da cui prendere esempio. Onesto, perché ha subito ammesso di non occuparsi di satira e di non farla e di aver anche perso, per un periodo, la sua fiducia in essa; e disponibile, perché non ha evitato le domande, ha sempre risposto. E ha risposto anche se non riusciva a trovare le parole giuste: in quel caso, ha usato l’esempio, la metafora, il racconto – come arte oratoria insegna – per spiegarsi. Per avvicinarsi, e non imporsi, al suo interlocutore.
Nelle dita che storcevano dita, nelle labbra tirate a dismisura e in quel sorriso tutto denti bianchi e fossette, io mi ci sono ritrovato un po’. E immagino ci si siano ritrovati anche tutti quelli che, a ragione o a torto, in questi giorni hanno parlato di libertà di espressione, di denuncia e di vicinanza a Charlie Hebdo.
Non ne vale la pena uccidere per blasfemia. Ancora peggio: non è giusto farlo. Nessuno ne ha il diritto. È un gioco giocato dagli uomini, con le regole e le parole degli uomini, che le hanno ficcate a forza in bocca a divinità e “messi divini”, questo. Non un gioco tra grandi e grandissimi. È un gioco tra pulci – che dovrebbero imparare quantomeno a convivere tra loro, perché della pulce più grande, se c’è, se esiste, non ci è dato da sapere. Tutto quello che abbiamo è la nostra vita, e quella non è barattabile con la fede.