Eredità letterarie: tra principi Molokai e ladri ebrei

Eredità letterarie: tra principi Molokai e ladri ebrei

C’è un libro che comincia con un albero genealogico. Ce ne sono tanti per la verità, ma ce n’è uno particolarmente significativo, perché riassume nella prima pagina — nella seconda, se teniamo conto di una pagina di citazioni, nella terza se cominciamo a contare dal frontespizio, addirittura nella quarta se vogliamo fare i pignoli e considerare il foglio di guardia — tutta l’ossessione del suo autore per le saghe familiari. Mordacai Richler era un genio nell’intrecciare vicende umane come se fossero le pagliuzze di un cappello da pescatore e, in questo senso, quel libro che comincia con un albero genealogico è il suo capolavoro. Non era soltanto geniale, ma anche un fanatico della ricostruzione e del dramma, benedetto da una comicità quasi involontaria, che non c’è bisogno di presentare a chi ha letto La versione di Barney, ma che qui esplode e si lascia andare accatastando quante più relazioni familiari possibili per raccontare la storia di una famiglia che, apparentemente, ha vissuto ogni singolo momento della storia del mondo. Se mi chiedessero di fare un solo titolo, per riassumere tutta la letteratura familiare nordamericana non avrei dubbi: Solomon Gursky è stato qui (Adelphi, 2003 tradotto da Massimo Birattari). E provate a darmi torto.

Ephraim Gursky, capostipite e oggetto totemico delle generazioni a venire è stato, in serie: uno sciamano ebreo-eschimese, un cantore a Minsk, un borsaiolo a Londra, un carcerato, ovviamente, un finto predicatore millenarista e un manovale in Klondike. E i suoi eredi non hanno tradito le buone abitudini: viaggiatori, studiosi pigri, artisti vivaci, imbroglioni, procacciatori di guai complessi. Tutto quello che è stato il loro degno autore. Alla sua uscita, nel 1990, Amy Edith Johnson ha definito Solomon Gursky sul New York Times come: «“Duecento anni di solitudine giudaico-canadese”, uno spettacolo Dickensiano intriso di realismo magico». Sicuramente è stato, per Richler, un esercizio di analisi, di pulizia, di ricerca. Dentro c’era l’America fino ad allora, le migrazioni e la politica. La frenesia di Richler, la sua passione per il sovraccarico, la sregolatezza della scrittura messa al servizio di una saga che copre più di due secoli. E i Gursky, da Ephraim in avanti passando per Solomon, hanno veramente visto tutto mentre stava succedendo: le esplorazioni artiche, la lunga marcia di Mao, il Watergate e giù per un sentiero in discesa attraverso i balzelli dell’umanità e le vicende personali di ciascuno dei protagonisti. «Sebbene non fossero presenti al momento della Creazione, non si sono persi nient’altro», è la sentenza di Johnson.

Le saghe familiari sono una specie di perversione: la ricerca della struttura complessa, la costruzione certosina delle relazioni, l’evolversi dei componenti e il ramificarsi dell’albero genealogico per arricchirsi del corredo genetico. Alla fine di una buona saga si rimane con la sensazione di conoscere la famiglia da generazioni, ed è qualcosa che non passa facilmente.

Kaui Hart Hemmings è nata alle Hawaii, isole che già di per sé sono il frutto di una genealogia complessa, avviata dall’unione dell’Oceano Pacifico con i vulcani. Marchiate da una successione di re, costretti a spartirsi isolotti e atolli battezzati con i nomi delle famiglie: Wakea, Haloa, Waia, Hinanalo, Nanakehili, Kio, fino ad arrivare, ai primi dell’Ottocento, a Kamehameha il Grande, l’unificatore del regno destinato a trasformarsi nel cinquantesimo Stato e a battezzare il quarantaquattresimo Presidente. Se poi si va a frugare tra i nomi dei nativi, in un intrico di discendenze miste che dalla tradizione Molokai e Hawaiki si centrifugano con samoani, giapponesi e inglesi, confondendo i tratti e sporcando le lingue, si scoperchiano centinaia di flussi indipendenti. Proprietari terrieri, coltivatori di ananas, navigatori, americani innamorati di una terra che non gli appartiene del tutto e nativi che ci hanno fatto l’abitudine.

Alla fine di una buona saga si rimane con la sensazione di conoscere la famiglia da generazioni

Le Hawaii, dopotutto, non sono un grande Stato e le generazioni delle diverse famiglie si susseguono incrociandosi continuamente finché tutti diventano eredi di tutti e la terra ritorna a essere un bene comune. Hemmings, nel 2007 ha scritto Paradiso amaro (Newton Compton, 2012 tradotto da Paolo Falcone) — che in inglese ha il titolo decisamente più evocativo The Descendants, adattato per il cinema nel 2011 da Alexander Payne, aggiudicandosi l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale su cinque nomination e condannando per sempre le copertine dell’edizione italiana del romanzo a portare il volto di George Clooney — e che segue le vicende di Matt King (anche King è un cognome tipico, proviene dai primi coloni), pronipote di missionari progressisti sbarcati agli albori della dinastia Kamehameha e presto entrati nelle grazie della famiglia reale — uno di loro avrebbe persino sposato una principessa, lasciando a Matt, quasi due secoli dopo, uno dei patrimoni terrieri più importanti delle isole e tutto il peso di una posizione sociale ingombrante. Conosciuto da tutti, amato da tutti e da tutti giudicato senza pietà.

Va bene, questa non è propriamente una saga familiare quanto piuttosto il percorso di un nucleo sull’orlo del dramma, ma l’abilità di Hemmings sta nello scaricare sulle spalle del suo protagonista tutto il peso di un’eredità pesante, oltre all’incombenza di doverlo un giorno rovesciare sui suoi figli, che di principesse e missionari non hanno mai sentito parlare. È come se avesse preso una saga bicentenaria e avesse deciso di raccontarne solo l’ultima parte, mettendo i King di fronte alla perdita della madre, come se avesse raccolto l’intera storia delle Hawaii e l’avesse fatta confluire in un unica, piccola, vicenda, senza risparmiarsi i guai del trascorso. L’albero genealogico c’è, non nella prima pagina ma tra le righe di tutto il romanzo.

Quella delle saghe è una perversione, dicevo, e una costante della letteratura mondiale. Ogni scrittore ha un’eredità, che sia piccola o grande, che sia quella di una famiglia girovaga e di una giovinezza passata a collezionare idee per l’Europa e a mescolarle alla tradizione ebraica, oppure la mastodontica tradizione delle isole presa tutta assieme. Che sia, come è stato per Philip Roth, la mano sulla testa di un padre incombente come l’Hermann di Patrimonio (Einaudi, 2007 tradotto da Vincenzo Mantovani), oppure i destini letterari dei fratelli Singer — di cui scrivevo qui — lasciati a popolare romanzi grandiosi come La famiglia Karnowski, I fratelli Ashkenazi o La famiglia Moskat. Le storie famigliari sono storie e come tali meritano di essere trattate. Vanno esplorate, sviscerate della loro essenza e condotte alla riscoperta del passato, per quanto scomoda e dolorosa questa operazione possa diventare. L’eredità letteraria si compone di milioni di pagine, che prese tutte insieme raccontano la storia dell’umanità.

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