Le grandi compagnie petrolifere adesso licenziano

Le grandi compagnie petrolifere adesso licenziano

Contrordine. Il calo del prezzo del petrolio non fa bene all’economia globale. Il Fondo Monetario Internazionale è stato costretto a rivedere al ribasso le stime di crescita anche se lo scorso dicembre il direttore generale Christine Lagarde aveva detto che il petrolio low cost «è una buona notizia per l’economia globale». Le multinazionali del settore energetico sono in difficoltà e sono già arrivati tagli dei costi, blocco degli investimenti e migliaia di licenziamenti.

Il calo degli introiti causato da sette mesi di ribassi si è tradotto in migliaia di posti di lavoro tagliati

All’inizio di questa settimana le quotazioni del brent, principale riferimento per il mercato, è tornata sopra i 55 dollari ma il calo degli introiti causato da sette mesi di ribassi ha conseguenze pesanti sui bilanci delle società petrolifere che si sono tradotti in migliaia di posti di lavoro tagliati. «Le compagnie petrolifere devono pensarci due volte prima di stanziare nuovi progetti», riassume Olivier Appert, presidente del centro di analisi francese Ifp Energies Nouvelles. A livello complessivo, quest’anno gli investimenti nel settore dovrebbero calare dell’8 per cento.

La francese Total ha reso noti numeri molto negativi. In un’intervista al quotidiano Le Monde, il direttore generale Patrick Pouyanne ha parlato di «ritirata strategica». Sarà tagliato il 10 per cento degli investimenti previsti per il 2015. «Gli investimenti sono scesi dai 28 miliardi di dollari del 2013 a 26 miliardi nel 2014». Prevista una sforbiciata anche ai costi delle attività di esplorazione. «In questi ultimi anni le spese in exploration si attestavano a 2,8 miliardi di dollari. Nel 2015 saranno ridotte del 30 per cento», spiega Pouyanne. Saranno coinvolte le attività del Mare del Nord, del Canada, del Congo e del Gabon. Il colosso francese dell’energia potrebbe abbandonare i lavori di esplorazione a largo della costa di Cipro visto che le riserve di idrocarburi non sembrano sufficienti a sostenere i costi.

Nell’ultimo trimestre 2014 l’utile della Royal Dutch Shell utile è stato di 3,3 miliardi di dollari. Un risultato inferiore alle attese, anche superiore ai 2,9 miliardi di dollari registrati l’anno precedente. La compagnia anglo olandese ha annunciato tagli per 15 miliardi agli investimenti tra il 2015 e il 2017 e ha annullati 40 progetti. Tra questi c’è anche il mega investimento in Qatar dove si sarebbe dovuto costruire un impianto petrolchimico da 6,5 miliardi di dollari nella città industriale di Ras Laffan.

La British Petroleum ha annunciato di voler tagliare circa 300 posti dagli impianti del Mar del Nord. La norvegese Statoil e l’irlandese Tullow Oil hanno rimandato o definitivamente oltre 40 progetti di esplorazione.

Secondo l’ad Descalzi, l’Eni sta riducendo gli investimenti in un «range tra il 10 e il 15 per cento»

Anche Eni si prepara alla spending review. Nel corso dell’audizione alla Camera del 28 gennaio, l’amministratore delegato Claudio Descalzi ha spiegato che l’industria petrolifera sta riducendo gli investimenti in un «range tra il 10 e il 15 per cento». Un trend che sarà seguito anche dalla multinazionale guidata da Descalzi che «non è impegnata in produzioni difficili, costose e complesse. Da un punto di vista del break even siamo messi bene». Per produrre utili, Eni ha bisogno «di prezzi più alti, 50 dollari al barile, per esempio, è un prezzo migliore di 45 dollari».

Le cose non vanno meglio sull’altra sponda dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Schlumberger, la più grande società per servizi petroliferi al mondo a gennaio ha comunicato 9mila licenziamenti. Backer Hughes, società leader nei servizi per l’estrazione, lascerà a casa quasi 7mila dipendenti. L’americana Chevron ha chiuso l’ultimo trimestre con un calo dei ricavi complessivi da 56,16 a 46,09 miliardi di dollari. L’utile netto passa da 4,93 a 3,47 miliardi di dollari. Per quanto riguarda gli investimenti, i budget del 2015 è del 13 per cento più basso del totale stanziato per il 2014.

Negli Usa nel corso della scorsa settimana sono stati chiusi 94 pozzi (arrivando a 1.543 unità)

I numeri del secondo produttore di petrolio degli Stati Uniti sono certamente negativi ma comunque meno brutti di quanti ci si aspettava. «In avvio di 2015 disponiamo della forza finanziaria sufficiente a fronteggiare le sfide derivanti da un contesto caratterizzato da prezzi del greggio volatili», ha detto il chief executive John Watson. Conoco Philips, invece, ha fatto registrare una perdita netta di 39 milioni di dollari negli ultimi tre mesi del 2014 e ha già mandato a casa 230 lavoratori. La terza compagnia energetica americana per capitalizzazione ha anche ceduto impianti di estrazione in Nord Dakota e Texas, tra i principali bacini che hanno alimentato il recente boom della produzione di shale oil, il petrolio estratto dalle rocce di scisto.

Un boom che si sta sgonfiando. Secondo i dati diffusi di Baker Hughes, nel corso della scorsa settimana sono stati chiusi 94 pozzi (arrivando a 1.543 unità). Un dato che rappresenta il calo su base settimanale più ampio da quando si raccolgono le statistiche nel 1987. Un trend negativo che prosegue da sette mesi. Il prezzo del petrolio in picchiata butta fuori dal mercato lo shale americano che ha costi di estrazione più altri rispetto a quello “convenzionale”. Le società che hanno alimentato il boom dello shale sono, nella maggior parte dei casi, di piccole e medie dimensioni. Molte sono praticamente nate dal nulla e per avviare l’attività estrattiva si sono pesantemente indebitate.

Blackstone, il numero del private equity, è pronto ad investire 10 miliardi di dollari nelle compagnie energetiche

Ma non è ancora arrivato il momento di fermare un numero di trivelle tale da eliminare l’eccesso di offerta di petrolio sul mercato internazionale che è, poi, l’obiettivo dell’Arabia Saudita e degli altri paesi dell’Opec. Le compagnie americane posso approfittare dei finanziamenti dei gigante del private equity che negli ultimi mesi sembrano aver riscoperto la passione per le imprese petrolifere, ingolositi dalle perdite di valore causate dal ribasso del greggio.

Blackstone, il numero del private equity, è pronto ad investire 10 miliardi di dollari nelle compagnie energetiche. L’amministratore delegato Stephen Schwarzman ha dichiarato che nel settore energetico intravvede «una delle migliori opportunità che abbiamo mai avuto in molti, molti anni». Secondo Bloomberg, il fondo Apollo Global Management ha raccolto più di 15 miliardi di dollari da investire in imprese che operano nel settore dell’energia e dell’estrazione. Una pioggia di dollari che potrebbe allungare la vita delle imprese americane e, soprattutto, alimentare l’eccesso di offerta di petrolio che ha fatto crollare il prezzo negli ultime sette mesi.

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