Il nuovo Titolo V della Costituzione apre le porte alla privatizzazione di aziende locali di utilities che verranno «espropriate a comuni e regioni», come denunciava qualche giorno fa Il Giornale? Sembra proprio di no. L’impatto non sarà nullo ma riguarderà soprattutto la maggiore possibilità, almeno in teoria, di superare i veti locali sulla costruzione di alcune infrastrutture. Sul fronte della gestione dei servizi i prossimi anni vedranno sì un aumento delle dimensioni degli operatori, attraverso fusioni, ma tutto per effetto di leggi precedenti: ultime in ordine di tempo la Sblocca Italia e la legge di Stabilità 2015, che incentivano l’aggregazioni delle gestioni.
«Gli effetti sui settori delle utility della riforma del Titolo V – dice Alessandro Marangoni, direttore scientifico dell’associazione Top Utility – derivano dal venir meno della legislazione concorrente delle Regioni su alcune materie strategiche come l’energia, infrastrutture, grandi reti di trasporto, le cui competenze tornano allo Stato. Si dovrebbe così smorzare il contenzioso Stato-Regioni e ridurre i tempi di realizzazione delle opere. Inoltre, lo Stato può intervenire su materie non riservate per ragioni di interesse nazionale o di tutela economica».
Gli impatti potrebbero essere significativi nel medio termine per la realizzazione dei nuovi investimenti. Come per le linee di trasmissione elettrica, oggi bloccate talvolta da veti locali
L’impatto maggiore si avrà nel settore dell’energia. «Per l’energia – continua Marangoni – gli effetti sull’immediato delle gestioni sono modesti, mentre potrebbero essere significativi nel medio termine per la realizzazione dei nuovi investimenti. Si pensi alle linee di trasmissione elettrica, oggi bloccate talvolta da veti locali, e che potrebbero essere sbloccati dalla clausola di supremazia dello Stato laddove riconosciuti di interesse nazionale. Ugualmente per impianti strategici come i termovalorizzatori, anche se in passato l’ambiente era stato “dimenticato” nella riforma del titolo V».
Sulla gestione non cambia dunque nulla? Quasi. «Maggiori effetti sull’attività corrente potrebbe invece averla l’abolizione delle province e l’istituzione delle città metropolitane potrà certamente incidere sulla definizione degli ambiti territoriali ottimali, in particolare per l’acqua e (forse) per i rifiuti». Per l’energia, il venir meno delle province e la condivisione di alcuni servizi tra comuni, aggiunge Antonio Massarutto, professore del dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche all’Università di Udine, potrebbe favorire il superamento dell’attuale situazione che, in forza della legge Bersani, prevede un distributore per comune, anche per quelli piccoli. Sempre in campo energetico, la riforma costituzionale avrà come effetto che le gare successive alla scadenza delle concessioni rilasciate all’Enel, nel 2029, saranno gestite a livello nazionale e non regionale, così come quelle per la produzione di energia da fonti idroelettriche.
Nel settore dell’acqua, la creazione delle Città Metropolitane potrebbe portare novità soprattutto a Milano
Nel settore dell’acqua, la creazione delle Città Metropolitane potrebbe portare novità soprattutto a Milano, aggiunge Laura Campanini, membro della Direzione Studi e Ricerche e SRM di Intesa Sanpaolo e curatrice del report annuale “L’industria dei servizi idrici”. Il capoluogo lombardo ha infatti un “Ato” (ambito territoriale ottimale) distinto per il comune di Milano e per la sua provincia. Ora sarà prevedibile una fusione. Non dovrebbero esserci novità sul fronte delle tariffe: la fissazione è già passata da un paio d’anni all’Autorità per l’energia elettrica, il gas e i servizi idrici (Aeegsi), con una formula nazionale che tiene conto di variabili locali. Né sul fronte delle responsabilità, che rimangono di competenza degli Ato, anche se, aggiungono da Federutility, il quadro è tutt’altro che chiaro e definito.
La legge di Stabilità 2015 e lo Sblocca Italia prevedono che sia obbligatorio per i comuni partecipare agli Ato e che gli stessi Ato abbiano una dimensione minima provinciale
Questo non vuol dire che nei prossimi anni la situazione rimarrà statica. La legge di Stabilità 2015 e lo Sblocca Italia, aggiunge Laura Campanini, prevedono che sia obbligatorio per i comuni partecipare agli Ato e che gli stessi Ato abbiano una dimensione minima provinciale. Come anticipato da Linkiesta lo scorso ottobre, uno degli obiettivi del governo è quello di avere aziende sufficientemente robuste da poter sostenere gli investimenti. La Legge di Stabilità ha previsto per gli enti locali che dismettono quote o liquidano società partecipate, lo svincolo dal patto di stabilità per l’impiego delle somme ricavate dalle dismissioni. La Sblocca Italia obbliga invece gli enti locali che ricadono nell’ambito ottimale a partecipare all’ente di governo dell’ambito. La misura, fanno notare da Federutility, era già prevista dalla legge Galli, del 1994, ma ci sono ancora molti enti locali che non partecipano agli Ato e realizzano il servizio in economia. Gli effetti possono essere paradossali, come la presenza di tanti depuratori comunali, dai costi insostenibili, mentre se ne potrebbe realizzare uno per più comuni.
In alcune regioni si è già costituto un Ato unico per la gestione dei servizi idrici
Lo Sblocca Italia contiene anche una norma che prevede la fusione di ambiti territoriali piccoli. Un’altra spinta per le aziende più piccole ad aggregarsi con quelle più grandi. Oggi, spiega il Blue Book elaborato annualmente dall’associazione Utilitatis, sono già diminuiti: dai 93 del 2010 ai 70 del gennaio 2014. Questo perché la legge 42/2010 ha soppresso le Autorità d’Ambito e imposto alle Regioni di procedere all’individuazione dei soggetti a cui trasferirne poteri. Tale diminuzione, spiega il Blue Book, è diretta conseguenza della individuazione, in alcune Regioni (Toscana, Emilia Romagna, Calabria, Abruzzo, Umbria), di un Ato unico di livello regionale. Va precisato, aggiunge però lo studio, che in diversi casi sono stati individuati, oltre all’Ato unico regionale, anche dei subambiti. In alcune Regioni, inoltre, l’Ente d’ambito regionale, pur previsto dalla legge, non si è ancora costituito.
Un effetto di queste spinte sarà con ogni probabilità una grande serie di acquisizioni di piccole società municipalizzate da parte di grandi operatori regionali o multiregionali
Un effetto di queste spinte sarà con ogni probabilità una grande serie di acquisizioni di piccole società municipalizzate da parte di grandi operatori regionali o multiregionali: Hera (Emilia Romagna e Triveneto), A2A (Milano e Bologna), Iren (Genova, Torino, Piacenza e Reggio Emilia), Cap Holding (provincia di Milano). Un piano già in fase avanzata, come ha scritto la Repubblica lunedì 20 ottobre, è quello di Acea, società partecipata al 51% dal Comune di Roma (e al 15% da Francesco Gaetano Caltagirone), che intende aggregare e consolidare le municipalizzate di gestione idrica di Toscana e forse Umbria. Si creerebbe un patto di sindacato tra il Comune di Roma e una holding umbro-toscana, conferitaria delle azioni dei Comuni in Acea. Oggi le gestioni sono 2.240, per 2.189 gestori. Di questi, 1.957 sono gestioni in economia, prevalentemente (in 1.829 casi) in comuni con meno di 10mila abitanti.
I dati del Blue Book di Utilitatis dicono che, in generale, le aziende “top” e “grandi” hanno performance migliori
Sarà un bene per il sistema italiano una minore frammentazione dell’offerta? I dati del Blue Book di Utilitatis dicono che, in generale, le aziende “top” e “grandi” hanno performance migliori: minori costi del personale in rapporto al fatturato, migliore Roe e Roi, maggiore utile aggregato, rispetto alle aziende medie e piccole. Ma se tra i piccoli gestori ci sono spesso le maggiori inefficienze, ci sono anche casi di eccellenza tra gli operatori minori, se accompagnati da una solidità patrimoniale.
Quello che potrà succedere nei prossimi anni, aggiunge il Blue Book, è qualcosa di simile all’esperienza britannica seguita alla riforma del settore idrico avviata nel 1990, con l’introduzione della regolazione indipendente (Ofwat) e la riduzione del numero di gestori ad una trentina di operatori.
«La riforma – si legge – ha permesso tra il 1991 e il 2011 la realizzazione di investimenti per circa 90 miliardi di sterline (103,5 miliardi di euro), finanziati con debito e con capitale proprio, che hanno determinato notevoli vantaggi sia per gli utenti che per i gestori, grazie alla diminuzione delle perdite, all’adeguamento alle norme ambientali e all’elevata qualità delle acque potabili. La spesa per la manutenzione straordinaria delle infrastrutture rappresenta quasi il 60% della spesa d’investimento totale, per circa 3 miliardi di euro all’anno. Questa spesa ha permesso alle aziende di mantenere il servizio efficiente e di consolidare e mantenere i benefici dei programmi di miglioramento del passato».