Uno staterello dell’Africa subsahariana, una situazione incerta e instabile, un tentativo di golpe. Sembra quasi una sceneggiatura già pronta per l’uso, una storia già sentita innumerevoli volte, un copione che si ripete. Tre ingredienti ricorrenti, nella storia africana, quasi fossero cliché.
Nei giorni scorsi, è accaduto di nuovo. Lo stato, il Burundi. La situazione, quella di un Paese che, dallo scorso aprile, è teatro di disordini e grandi manifestazioni di piazza, anche della durata di settimane, contro la scelta, da parte del presidente Nkurunziza, di presentarsi per un terzo mandato consecutivo. Il tentativo di colpo di stato, quello fallito dal maggior generale Godefroid Niyonbare, già a capo dei servizi di intelligence.
Tutto questo, in un Paese delle dimensioni del Piemonte, con una popolazione minore rispetto alla Lombardia, spesso trascurato – se non totalmente dimenticato – dalle cronache internazionali. Del Burundi, a dispetto del fatto di essere un nome sovente utilizzato nella cultura popolare come metro di paragone per indicare uno standard di arretratezza e povertà assoluta, molti persino ignorano la collocazione geografica.
Per comprendere meglio quanto sta avvenendo e quali possano essere i risvolti futuri dell’attuale situazione, anche in relazione con l’Occidente e la comunità internazionale, Linkiesta si è rivolta a Fabrizio De Longis, giornalista, già inviato in Burundi per Teleradiopace e autore del libro L’apartheid dimenticato. La democrazia del machete in Burundi (2013, ed. Manni). Un volume che, con la prefazione di Domenico Quirico, è stato definito da Massimo Zamorani «uno dei migliori reportage sull’Africa mai scritti» e «la più importante e fondamentale opera per conoscere il Burundi».
«Il generale Niyonbare ha provato ad approfittare dell’assenza temporanea del presidente Nkurunziza, che si trovava fuori dal Burundi per un summit internazionale, per portare a compimento un colpo di Stato. Storicamente, in Africa è sempre funzionato così: si aspetta che il capo di Stato vada all’estero e si organizza un golpe», spiega De Longis.
«Qualcosa però non ha funzionato, questa volta. Niyonbare si è presentato alquanto debole: aveva con sé qualche mezzo blindato, un po’ di gruppi armati, ma non aveva l’appoggio di militari. Forse solo un decimo delle forze militari del Paese lo hanno sostenuto. Si aspettava probabilmente che i burundesi, a cominciare da quelli che manifestavano contro il governo Nkurunziza, lo aiutassero e lo difendessero, invece ciò non è avvenuto: questo è un dato significativo».
Dunque, niente di nuovo? L’ennesimo tentativo di colpo di Stato in un piccolo Paese dell’Africa?
Per la prima volta, la situazione attuale e quella che si delinea per il prossimo futuro non appaiono come dettate da schemi di etnie o di appartenenze militari
C’è qualche interessante elemento di novità, anche nelle proteste che vanno avanti da settimane, rispetto a quello che è stato lo schema classico del Burundi e di quella parte di Africa in generale, nei decenni. Per la prima volta nella storia, infatti, la situazione attuale e quella che si delinea per il prossimo futuro non appaiono come dettate da schemi di etnie o di appartenenze militari, due punti cardine di ogni avvenimento politico e sociale del Paese, nella sua storia post-colonialista. Non c’è più una contrapposizione tra etnia Hutu ed etnia Tutsi: la tematica non è più solo etnica, ma stanno entrando in gioco degli elementi politici, in parte democratizzanti. Questo, tuttavia, non significa che il Burundi non vivrà più altri disordini e sconvolgimenti nel prossimo futuro, purtroppo.
A cosa sono dovute le proteste da parte della popolazione, da mesi in piazza a manifestare?
Non è la prima volta che i burundesi danno vita a una vivace protesta. Già nel 2008, si fecero sentire a gran voce per contrastare l’approvazione di una legge omofoba – che non vide la luce anche grazie alle pressioni di Nazioni Unite e Unione Europea – mentre nel 2010 manifestarono contro l’elezione di Nkurunziza denunciando brogli e altre manovre poco trasparenti, dopo quella che è stata definita “una campagna elettorale con le bombe a mano”. Questa volta, la causa scatenante è la volontà, da parte del presidente, di presentarsi per un terzo mandato alle elezioni del 26 giugno: la Costituzione del 2005, che mise fine a una lunga guerra civile, prevedeva non più di due mandati. Nkurunziza si appella all’articolo 96 della carta che, secondo interpretazione della Corte Suprema burundese – dopo palesi minacce da parte del capo dell’esecutivo – vuole che la prima elezione, quella del 2005, non venga considerata al pari delle altre poiché avvenuta in sede parlamentare e non per il voto dei cittadini. Da qui, sono scoppiate le proteste, che Niyombare ha provato a cavalcare, fallendo però il colpo di Stato perché privo di un vero esercito al suo fianco.
Quali scenari si prospettano, dunque, in vista dell’appuntamento elettorale?
Il timore principale è che il Paese precipiti nuovamente nella guerra civile
Nkurunziza è rientrato immediatamente nel Paese, e il generale golpista è stato arrestato. Alle elezioni, il presidente uscente non ha sfidanti di rilievo, poiché in questi ultimi cinque anni non c’è stata una vera politica di opposizione, dal momento che il governo ha sempre promosso una politica di oppressione di tutti i dissidenti. Il timore principale è che il Paese precipiti nuovamente nella guerra civile, un rischio che purtroppo è concreto, data la forte componente militare che lo caratterizza. Il Burundi ha un esercito molto ampio per le sue dimensioni, con ruoli notevolmente radicati sul territorio, e una connotazione etnica al suo interno: ci sono avamposti militari ogni 2-3 chilometri, l’esercito effettua azioni di controllo e svolge la funzione di polizia sul territorio nazionale, mentre la polizia agisce per lo più nella capitale Bujumbura. In questi giorni i cittadini stanno scappando, perché sono consapevoli dei rischi del loro Paese. I fronti sono molteplici: da una parte il presidente Nkurunziza; da un’altra i golpisti che, pur privi del generale Niyombare, sono ora guidati dall’ex capo della Polizia Zenon Ndabaneze. A questi si aggiunge il vecchio gruppo ribelle del FNL (Forces Nationales de Liberation). E poi c’è l’ex presidente Pierre Buyoya, già governatore e presidente, che salì al potere uccidendo l’unico leader eletto democraticamente nella storia del Burundi. Oggi, seppur “dormiente”, controlla almeno un terzo delle forze armate burundesi. Un altro terzo è nelle mani di Nkurunziza. Resta da vedere come si schiererà la restante parte dell’esercito.
Dopo quanto accaduto, i burundesi fuggono fuori dai confini del Paese. Fonti ufficiali parlano di oltre settantamila profughi. C’è possibilità che alimentino l’emergenza con cui sono alle prese l’Italia e l’Europa?
La migrazione verso le coste dell’Europa è molto difficile e altamente improbabile
Tendenzialmente, i burundesi che lasciano il proprio Paese restano comunque nell’area dell’Africa centrale, cercando rifugio negli stati confinanti. In precedenza, i fenomeni migratori riguardavano le etnie sconfitte che, per non essere perseguitate, scappavano in Rwanda o in Congo, trovando elementi etnici affini, con cui magari creare movimenti ribelli paramilitari. La migrazione verso le coste dell’Europa è molto difficile e altamente improbabile, trattandosi di una zona geografica assai distante: raggiungere il Mar Mediterraneo sarebbe molto costoso, per una popolazione che guadagna in media circa 20 centesimi di dollaro al giorno, senza che bastino loro per sopravvivere. Inoltre, dovrebbero attraversare numerosi Stati coinvolti da guerre civili, o dove i signori della guerra la fanno da padroni. Soprattutto, dovrebbero riuscire a superare il Sahara, e tutta l’area del deserto è controllata dagli islamisti di AQIM, il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, l’Al Qaida del Maghreb Islamico, che gestisce traffici di droga e armi.
Nessun fenomeno migratorio verso le coste del Nord Africa, dunque.
La probabilità è assai ridotta. Più rilevante invece è il rischio che i più giovani riescano a fuggire in Yemen, altro Paese dove impera la guerra civile, per addestrarsi nei campi dello Stato Islamico e diventare futuri terroristi. Questo è il pericolo più grosso, per il Burundi e ovviamente per tutto l’Occidente. Altro rischio, per l’attuale situazione di instabilità, è quello che qualcuno possa approfittare dell’occasione per rapire i più piccoli per farne bambini soldato, o donne per renderle schiave. Da questo punto di vista, purtroppo, il Burundi e il vicino Rwanda stanno vivendo esperienze parallele e simili tra loro, come territori molto instabili, con leader dittatoriali e politiche di oppressione.
L’impressione è che la comunità internazionale, anche in questo caso, sia poco presente.
Il Burundi e il vicino Rwanda stanno vivendo esperienze parallele e simili tra loro, come territori molto instabili, con leader dittatoriali e politiche di oppressione
Gli interventi della comunità internazionale sono da sempre mediati dall’Unione Africana, che non sempre gradisce le interferenze straniere, interpretate alla stregua di politiche neo-colonialiste. Gli interventi di peace-keeping sono sempre stati molto esigui, poiché riguardavano la protezione di singoli individui di nazionalità estera. Prima del tentativo di colpo di stato, si è registrata una intensa attività da parte della diplomazia statunitense per provare a convincere Nkurunziza a non ricandidarsi. L’obiettivo sarebbe garantire un minimo di stabilità al Paese, il quale, come il Rwanda, funge spesso da stato satellite per favorire l’esportazione di materie prime dei paesi confinanti.
Cosa servirebbe, al Burundi, per raggiungere definitivamente la stabilità e intraprendere un percorso di democratizzazione?
Basterebbe un vero intervento di carattere internazionale, che potrebbe essere condotto dall’Unione Africana stessa, con l’ausilio strategico di Nazioni Unite e Unione Europea. Un’azione reale e forte, che non richiederebbe neppure grandi sforzi dal punto di vista militare, date le dimensioni ridotte del Paese. Si pensava che il Burundi avesse raggiunto una parvenza di stabilità, dopo dieci anni, ma la politica di Nkurunziza non ha aiutato a normalizzare la situazione. Anzi, il Fronte Nazionale della Liberazione è rimasto in parte ribelle, sempre più vicino all’Islam radicale, e si rifugia nella foresta – storicamente, neppure il napalm è riuscito ad abbatterlo. Un intervento di peace-keeping da parte della comunità internazionale potrebbe portare a raggiungere una situazione di tregua e normalità. Invece, ora regna l’incertezza. Tra un mese si muoveranno nuovamente le pedine: o Nkurunziza andrà nuovamente al potere, oppure, con tutta probabilità, si aprirà un nuovo fronte di guerra civile.