Tutti in fila davanti all’Expo Gate. Magari sfogliando un inserto dedicato ai padiglioni di Rho o consultando una cartina di Milano. Felici. In coda, per ammirare la Pietà Rondanini, ultima opera (incompiuta) di Michelangelo, nella sua nuova sistemazione al Castello Sforzesco. Poi, nel favoloso chiostro del Palazzo delle Stelline in corso Magenta a festeggiare insieme all’Institut Français l’arrivo di Expo, con i piatti e i vini d’oltralpe. Quindi, lungo la nuova, magnifica, Darsena sdraiandosi a pelo d’acqua o divertendosi a vedere gli sguardi entusiasti dei passanti, davanti a un lago apparso, quasi all’improvviso, nel cuore della città. Trovarsi, insieme, in piazzale Cadorna, per rivendicare con forza l’identità di Milano.
Istantanee confuse, parziali, ma significative di un inizio Expo sorprendente. Si può dire tutto, meno che, durante il week end del primo maggio, mancasse entusiasmo, energia, curiosità. Perché Milano è schiva, sobria, talvolta diffidente ma mai pigra, mai impassibile di fronte alle novità. Siamo stati artefici, per dirla con le parole del direttore di ArcipelagoMilano Luca Beltrami Gadola di «un’accelerazione nel mutamento», e ora resta da capitalizzare tale scatto.
I conti, come sempre, si faranno alla fine ma già da ora è possibile leggere con uno sguardo più consapevole i numerosi studi scientifici che analizzano i rapporti che si creano tra città o aree metropolitane e grandi eventi. Già, perché i grandi eventi, tra cui le Esposizioni Universali (ma non solo), costituiscono innegabilmente «un momento di ripensamento per la città nel suo complesso e di profonda trasformazione», come evidenzia Giulia de Spuches nel suo “La fantasmagoria del Moderno. Esposizioni universali e metropoli”(2002). I grandi eventi sono diventati, al netto di alcune pur legittime perplessità, le chiavi di volta per giustificare importanti progetti di rinnovamento e rigenerazione delle aree urbane, pubblicizzare il loro status e la loro personalità, attrarre nuovi investimenti interni e modernizzare le loro economie.
È probabilmente ancora attuale la ricostruzione descritta del geografo francese Claude Raffestin nel suo “Territorializzazione, deterritorializzazione, riterritorializzazione e informazione” (1984) in cui venne teorizzato e studiato l’impatto del grande evento sulla città alla stregua di un processo di territorializzazione – deterritorializzazione – riterritorializzazione. Un processo che, sostanzialmente, appare in grado di assegnare un nuovo valore alla città in cui si insidia il grande evento, il quale è descritto come un «agente esogeno» capace di sollecitare un territorio in modo straordinario.
Non sempre in positivo, ammonisce Raffestin: il successo arriva quando le finalità urbanistiche e logistiche che persegue il grande evento appaiono in grado di sovrapporsi in maniera dolce rispetto alla complessità territoriale locale esistente, in modo tale che le due distinte visioni del territorio (quella sovra-locale e temporanea dell’evento e quella locale e duratura della comunità cittadina) possano marciare insieme.