I rohingya, l’altro dramma dei migranti in mare

I rohingya, l’altro dramma dei migranti in mare

Le immagini fanno impressione. Migliaia di persone sono bloccate in mezzo al mare senza acqua e cibo. Si gettano in acqua per cercare di afferrare dei viveri lanciati da un elicottero di soccorso. È un’altra tragedia dell’immigrazione globale. Non quella che l’Europa sta affrontando nel Mediterraneo, ma quella del Sudest asiatico.

Sono i migranti provenienti dal Bangladesh e soprattutto dal Myanmar che hanno raggiunto le coste di Aceh in Indonesia, dopo avere trascorso giorni in mare su alcune navi di pescatori che li avevano messi in salvo sulle loro imbarcazioni. Si tratta di musulmani di etnia rohingya che, in passato, cercavano di attraversare via terra la Thailandia per arrivare in Malesia.

Ma il governo di Bangkok ha deciso recentemente di cominciare una battaglia contro i trafficanti di esseri umani, che hanno aperto nuove vie marittime, più pericolose. Le carrette del mare cariche di migranti arrivano lungo le coste malesi e indonesiane dopo settimane di navigazione in condizioni disumane. Sempre più spesso le traballanti imbarcazioni vengono abbandonate in mare dagli scafisti e i migranti restano a corto di acqua e cibo. Di frequente si buttano in mare per cercare di raggiungere le coste a nuoto.

Il 16 maggio un’unità della Marina thailandese ha rimorchiato un barcone al largo delle isole meridionali della Thailandia, nel Mar delle Andamane, per portarlo fuori dalle sue acque territoriali e verso l’Indonesia. Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, ci sono almeno duemila persone al largo delle coste di Myanmar e Bangladesh, ostaggio da settimane e in condizioni tragiche dei trafficanti, che chiedono di essere pagati per sbarcarli.

Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati, ci sono almeno duemila persone al largo delle coste di Myanmar e Bangladesh

L’esodo dei rohingya sta diventando un fenomeno sempre più massiccio. Secondo Foreign Policy, si tratta del più grande “esodo di massa” in Asia dai tempi della guerra in Vietnam. Questa popolazione di origine musulmana che vive principalmente in Myanmar viene considerata dall’Onu la più perseguitata del mondo. Il suo destino è incerto, così come lo sono le sue origini.

Loro sostengono di essere indigeni dello stato di Rakhine, in Myanmar, mentre per la maggioranza buddista del Paese sono immigrati musulmani che originariamente vivevano in Bangladesh e che, in seguito, si sono spostati in Myanmar durante il periodo del dominio britannico. Ragione per cui il governo birmano li considera come immigrati illegali. Nel 1982 una legge ha revocato loro la cittadinanza birmana e, dopo oltre trent’anni di sofferenze non sono rimasti in più di 800mila, di religione musulmana, in un Paese di oltre 51 milioni di abitanti a maggioranza buddista.

Sono considerati cittadini di serie B e vivono in un perenne conflitto con i musulmani della regione di Rakhine. Si trovano in un regime di separazione totale e sono confinati in campi fuori dalla capitale dello stato e in zone isolati difficilmente raggiungibili. Numeri certi non ce ne sono, ma secondo le stime di alcune organizzazioni internazionali più di centomila rohingya hanno abbandonato il Myanmar negli ultimi tre anni, andando soprattutto in Bangladesh, Pakistan e Arabia Saudita in cerca di condizioni di vita accettabili. Altri 25 mila sono fuggiti dall’inizio dell’anno per raggiungere la Thailandia.

Dopo settimane di immobilismo, finalmente le diplomazie del Sudest asiatico si sono messe al lavoro per tentare di risolvere la crisi umanitaria. Il 20 maggio la Malaysia e l’Indonesia hanno annunciato che non respingeranno più le barche cariche di migranti. Il ministro degli Esteri malese Anifah Aman, in una conferenza stampa congiunta con il collega indonesiano Retno Marsudi, ha annunciato che «il rimorchio e il respingimento non avverranno più».

Il governo di Yangoon si è invece limitato a far diffondere un comunicato in cui si legge che il Myanmar condivide le preoccupazioni della comunità internazionale ed è «pronto a fornire assistenza umanitaria a chiunque abbia sofferto in mare». Ye Htut, il ministro dell’Informazione, ha detto di comprendere l’apprensione internazionale per le migliaia di migranti alla deriva nell’Oceano Indiano, ma ha insistito sul fatto che il suo Paese non è l’unico responsabile.

Per metter pressione ai governi della regione era dovuto intervenire il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che aveva publicamente espresso preoccupazione per la crisi umanitaria nel Sudest dell’Asia. Anche l’Asean, l’associazione che riunisce i Paesi del Sudest asiatico, ha fatto pressioni su Myanmar, Thailandia e Malaysia.

L’impressione è che la diplomazia non abbia ottenuto grandi risultati perché Stati Uniti e Cina, le due potenze che si contendono la supremazia nell’area dell’Asia-Pacifico, non hanno messo in campo tutto il loro potere persuasivo. Eppure proprio in Myanmar le sfere di influenza di Washington e Pechino si contrappongono.

Nel 2013 gli Stati Uniti hanno cominciato ad eliminare le sanzioni economiche dopo il processo di democratizzazione iniziato dal Myanmar, che nel giro di un anno aveva sostituito la giunta militare con un governo civile e aveva liberato la leader dell’opposizione e premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi.

L’avvicinamento dell’ex Birmania agli Stati Uniti ha preoccupato parecchio la Cina. Pechino è stato il principale partner del Myanmar nei decenni dell’isolamento internazionale. Il Myanmar è una pedina fondamentale per la Cina: importantissimo per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e strategico nella corsa al controllo delle rotte marittime. I cinesi non hanno apertamente osteggiato la nuova amicizia con Washington, ma non possono permettersi di perdere il controllo sul Paese che rappresenta un corridoio cruciale verso l’Oceano Indiano.

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