Attentati a raffica e diritti negati, l’Egitto dei militari è allo sbando

lo scenario

Le celebrazioni egiziane del 30 giugno, anniversario dell’inizio delle proteste che portarono alla caduta di Mohammed Morsi – una “rivoluzione” per chi l’ha promossa, un colpo di Stato, nella sostanza – erano state cancellate nell’immediata vigilia, a causa dell’attentato costato la vita al procuratore generale del Paese, Hisham Barakat. Una bomba aveva colpito il convoglio del giudice, vicino all’accademia militare di Heliopolis e alla casa dello stesso Barakat, morto in seguito alle ferite riportate. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che solo due giorni dopo, il primo luglio, nel Sinai, il gruppo jihadista Ansar Beit al Maqdis, la branca locale dello Stato Islamico, lanciasse una raffica di attentati simultanei: alla stazione di polizia di Sheikh Zuweid, nel Nord della regione, e contro alcune postazioni dell’esercito ad Al Arish e a Rafah, al confine con la Striscia di Gaza.

Una raffica di attentati, prima contro il procuratore, poi contro polizia ed esercito: uccisi 17 soldati e un centinaio di militanti

Il bilancio degli attacchi è pesantissimo: inizialmente si parlava di 70 vittime, in gran parte militari. Poi l’esercito ha corretto il tiro: 17 soldati e un centinaio di militanti, vittime della reazione del Cairo. Perché l’Egitto si è mosso prendendo alla lettera le parole del premier, Ibrahim Mahlab («Siamo in stato di guerra»). Gli aerei F16 si sono alzati in volo per colpire obiettivi del Califfato e il governo ha dichiarato che le azioni non si fermeranno fino a quando il Sinai non verrà “completamente ripulito”.

Sono passati due anni dalla defenestrazione di Morsi, vittima di un colpo di Stato, certo, ma anche della propria incapacità di gestire il potere e risollevare l’economia. La soluzione inclusiva alla tunisina, laici ed islamisti assieme nel guidare la transizione, era stata subito scartata. La riforma della Costituzione a colpi di maggioranza aveva segnato la rottura di quel fronte variegato che si era schierato contro Mubarak. E i laici, temendo l’islamizzazione totale del Paese, si erano rifugiati sotto il tradizionale ombrello dell’esercito per sbarazzarsi della Fratellanza. Ora il movimento Tamarrod – quello che nel 2013 raccolse ventidue milioni di firme e scese in piazza per chiedere le dimissioni di Morsi – è allo sbando. I militari sono tornati a gestire il Paese, seppure vestendo abiti civili (il generale al Sisi si è fatto eleggere formalmente alla presidenza nel maggio 2014). L’Occidente ha storto il naso di fronte al regime change, poi, considerata la centralità dell’Egitto nel mondo arabo, ha fatto professione di realismo, tanto più che al Sisi si è presentato come l’alfiere della lotta all’Islam radicale, in tutta la regione.

MESSAGGIO PROMOZIONALE

Il generale ha usato il pugno di ferro contro i Fratelli Musulmani. Chi non è fuggito all’estero, dai protettori turchi e qatarioti, è finito in galera (circa 16 mila attivisti). I processi, nei quali lo stesso Barakat era in prima linea, hanno avuto esiti durissimi. Morsi è stato condannato a morte, per avere pianificato nel 2011 un’evasione di massa dal carcere, e ha ricevuto un ergastolo per spionaggio. Sono state pronunciate pene spropositate, molte delle quali capitali, nei confronti dei membri della Fratellanza. Nei due anni del regime al Sisi, però, ha fatto irruzione un nuovo, ingombrante, soggetto, lo Stato Islamico. Nella valle e nel Delta del Nilo, e in tutto l’Alto Egitto, sono attivi vari gruppi fondamentalisti, ma la vera minaccia è Ansar Beit al Maqdis, noto anche come Wilayat Sinai (ossia la sezione locale del Califfato). La penisola è sempre stata una regione particolarmente riottosa. Quando Morsi, nell’agosto del 2012, decise di avviare un ricambio ai vertici dell’esercito, deponendo il ministro della Difesa, Hussein Tantawi, e il capo di Stato maggiore, Sami Hafez Anan, utilizzò come pretesto l’attacco jihadista a una stazione di polizia del Sinai, che aveva provocato sedici morti. Ironia della sorte, nominò al loro posto due generali. Sobhi Sidki e un certo Abdel Fatah al Sisi.

La grande zavorra della crescita egiziana è la sicurezza: l’Occidente ha chiuso un occhio sulle violazioni dei diritti umani perchè al Sisi facesse il poliziotto della regione

Se si legge la cronologia degli attentati dell’ultimo decennio, si nota una curva ascendente dopo la caduta di Mubarak, ma soprattutto in seguito alla defenestrazione di Morsi. Eppure Al Sisi era salito al potere promettendo sviluppo e sicurezza. L’economia, pur mostrando mostra segnali di ripresa, è ancora largamente dipendente dal sostegno dei Paesi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita (che, come è emerso dai cosidetti Sisi leaks, registrazioni illegali fatte nell’entourage del generale, hanno finanziato anche il colpo di Stato in chiave anti-islamista). A marzo il presidente ha organizzato una grande conferenza internazionale, a Sharm-el-Sheik, a cui partecipato anche Renzi, per promuovere gli investimenti stranieri, soprattutto nel campo infrastrutturale e in quello energetico. Ma la grande zavorra della crescita è proprio la sicurezza. L’Occidente ha chiuso un occhio sulle violazioni di diritti umani perché al Sisi, in cambio, facesse il poliziotto della regione. E invece, l’Egitto non solo è un fattore di disequilibrio in Libia – dove il suo protegé, il generale Khalifa Haftar non riesce a liberare Bengasi dagli islamisti e al tempo stesso ostacola il processo di pace tra i due governi – ma è anche incapace di domare il terrorismo interno. 

Il Cairo si è addirittura “avvicinato” ad Hamas, colpito per lungo tempo dopo la caduta del governo “amico” di Morsi, proprio perché entrambi si trovano di fronte alla sfida portata dal Califfato: il movimento islamista a Gaza, al Sisi nel Sinai. I Fratelli musulmani, invece, che hanno preso le distanze dall’omicidio di Barakat, pur ricordando il suo ruolo nella campagna repressiva del regime, sono divisi. La vecchia guardia è incline al compromesso, i più giovani tendono a pensare che, davanti al pugno di ferro di al Sisi, prendere le armi sia l’unica soluzione. Di qui l’attrazione esercitata dallo Stato Islamico, ormai il marchio più appetibile nell’internazionale del terrore. Lo scorso 24 giugno sul popolare sito al Monitor è uscito un pezzo in qualche modo profetico. Uno sceicco della tribù Sawarka, una delle più grandi del Sinai, sosteneva che la sentenza di condanna a morte di Morsi, emessa il 19 giugno, avrebbe finito per colpire la penisola. Perché avrebbe spinto la gioventù della Fratellanza nelle braccia dei gruppi più estremisti.

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