L’avanzata del Califfato che terrorizza il Mediterraneo

L'avanzata del Califfato che terrorizza il Mediterraneo

In origine fu l’Isis (o Isil), Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (o del Levante). L’obiettivo, sin dal nome, era quello di cancellare i vecchi confini tracciati da Mark Sykes e George Picot, in rappresentanza delle potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, e sostituire i vecchi regimi di Damasco e Baghdad con una nuova entità statale. Poi, il 29 giugno del 2014, Abu Bakr al Baghdadi proclamò la nascita dello Stato Islamico, attribuendosi il titolo di Califfo. Il progetto era diventato molto più ambizioso, riunire tutta la comunità islamica sunnita, una volta sterminati gli sciiti, sotto il suo dominio.

A un anno di distanza, la presa dell’IS su Siria ed Iraq non si sgretola e nei territori originari al Baghdadi mantiene le due “capitali”, Raqqa e Mosul. Sul piano militare il Califfato alterna sconfitte – Kobane e Tikrit – e vittorie – Palmira e Ramadi – ma è ormai chiaro che l’intervento aereo della coalizione internazionale, se efficace in certi contesti, non è affatto risolutivo, come era prevedibile. Anche se gli Stati Uniti hanno rafforzato il proprio contingente in Iraq, ora superiore alle tremila unità, e hanno chiesto ad altri Paesi di unirsi allo sforzo – come ha raccontato recentemente Daniele Raineri, sul Foglio, l’Italia sta contribuendo, con le proprie forze speciali, nell’area di Ramadi – l’esercito iracheno è ancora troppo debole e non sufficientemente addestrato per sostenere l’offensiva contro lo Stato Islamico.

Il fronte anti-Califfo è talmente variegato che mette assieme amici, rivali e nemici, per cui anche un alleato può creare problemi

E poi il fronte anti-Califfo è talmente variegato che mette assieme amici, rivali e nemici, per cui anche un alleato può creare problemi. Le milizie sciite, legate all’Iran, sono tanto efficaci quanto destabilizzanti. Le tribù sunnite irachene, chiave del conflitto, non sono state ancora coinvolte nella battaglia contro al Baghdadi. I curdi siriani sono una spina nel fianco del Califfato, ma costituiscono un problema per la Turchia di Erdogan, membro molto riluttante della coalizione. Le uniche milizie affidabili, che non creano mal di testa in Occidente, sono i peshmerga, i curdi iracheni.

Tutti questi fattori spiegano la sostanziale tenuta del Califfato nei territori originari. Al tempo stesso, in questi dodici mesi lo Stato Islamico ha cominciato ad assumere alcune caratteristiche di al Qaeda, il gruppo rivale con cui al Baghdadi ha rotto definitivamente nel 2014. Da progetto statuale nell’area mesopotamica l’IS è diventato un marchio riconosciuto del terrorismo internazionale, secondo una struttura non piramidale che lascia grande margine di autonomia a gruppi locali, cellule ristrette e singoli individui.

La propaganda del Califfato, veicolata attraverso i social media, con una serie di video di ottima fattura, è stata efficace sia nel far accrescere il numero di soldati affluiti in Siria e in Iraq – il cui numero preciso, però, sfugge – sia nello spingere i gruppi del jihad, o i cosiddetti lupi solitari, a proseguire o avviare una battaglia interna, facendo dello Stato Islamico il proprio riferimento ideologico.

Negli ultimi dodici mesi il Califfato si è espanso in Egitto, Libia, Tunisia, Gaza e persino Algeria

Nel corso di questi dodici mesi, quindi, il Califfato si è espanso, soprattutto perché si sono susseguite le dichiarazioni di adesione alla sua causa, a partire dall’Africa settentrionale bagnata dal Mediterraneo: Egitto, Libia, Tunisia, Gaza, persino l’Algeria (dove è stato sequestrato ed ucciso un cittadino francese, Hervé Gourdel). Il Marocco sinora è stato risparmiato, ma l’allerta a Rabat rimane alta.

Cellule radicali fedeli al Califfo sono comparse in tutto il mondo musulmano, a cominciare dalla penisola arabica. Lo Yemen, innanzitutto, dove i militanti dell’IS si sono inseriti nella guerra civile tra i sunniti e i ribelli sciiti Houthi, ma anche l’Arabia Saudita e il Kuwait, dove la comunità sciita è stata colpita più volte, l’ultima delle quali nove giorni fa, nel “venerdì di sangue” del mese di Ramadan (e l’attentatore di Kuwait City era proprio un saudita).

In Africa uno dei gruppi terroristici più temuti, Boko Haram, noto in Occidente soprattutto per il sequestro di più duecento studentesse nigeriane, ha dichiarato l’adesione al Califfato. Una branca regionale dell’IS si è sviluppata nel Caucaso. Persino in Pakistan e in Afghanistan il Califfo fa proseliti, minacciando gli stessi talebani, che, ironia della sorte, secondo alcune fonti si sarebbero addirittura avvicinati all’Iran, il nemico sciita (interessato ad evitare un’ulteriore espansione dello Stato Islamico sunnita, nell’ennesimo rimescolamento delle alleanze in Oriente).

I prossimi obiettivi geografici sembrano essere l’Asia centrale ex sovietica e il sud-Est Asiatico, dalle Filippine all’Indonesia

I prossimi obiettivi geografici sembrano essere l’Asia centrale ex sovietica e il sud-Est Asiatico, dalle Filippine all’Indonesia. Ma, al momento, al di la’ dei domini originari, l’Africa mediterranea è la regione in cui il Califfato si è insediato con maggiore solidità. Quando i militanti dello Stato Islamico, a febbraio, hanno decapitato ventuno copti sulla spiaggia di Sirte, l’Occidente ha avuto la percezione di quanto il pericolo si fosse avvicinato ai confini europei. In Libia l’IS ha approfittato della guerra civile tra il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale, e quello di Tripoli, sostenuto da gruppi prevalentemente filo-islamici, per farsi spazio, conquistare alcuni centri – la stessa Sirte, Derna, dove però recentemente è stato cacciato da altri gruppi jihadisti, Sabratha, nell’Ovest – ed infiltrare alcuni uomini anche nella capitale. Al Baghdadi ha mandato alcune truppe dal Medio Oriente alla conquista della Libia e del suo ingente patrimonio petrolifero; a questi si sono poi aggiunti gruppi fondamentalisti già presenti, che hanno deciso di aderire alla causa.

Si erano addestrati proprio in Libia gli uomini che hanno fatto irruzione nel museo del Bardo di Tunisi, lo scorso marzo, uccidendo 24 persone, proprio come Seifeddine Rezgui, il militante che la scorsa settimana ha provocato una strage sulla spiaggia di Sousse, sempre in Tunisia. Anche nel Paese dei gelsomini, infatti, il Califfato ha fatto proseliti. Secondo le stime più diffuse è proprio la Tunisia a fornire la maggiore quota di foreign fighters in Siria e in Iraq.

L’attacco simultaneo di mercoledì primo luglio nella penisola del Sinai, compiuto dalla branca egiziana dello Stato Islamico, Ansar Beit Al Maqdis, ha colpito due postazioni dell’esercito e una stazione di polizia, dimostrando il sostanziale fallimento delle politiche di al Sisi in materia di sicurezza. Anzi, malgrado il presidente egiziano si fosse presentato agli occhi dell’Occidente come il poliziotto anti-jihad e il garante della stabilità regionale, il Califfato ha preso sempre più corpo.

I rapporti di forza non sono ancora chiari, ma l’eventuale presa di Gaza da parte del Califfato produrrebbe conseguenze molto difficili da gestire.

È probabile che, in ambito mediterraneo, i prossimi obiettivi del Califfo possano essere il Libano, mosaico fragile di sunniti, sciiti e cristiani – d’altronde già in Siria l’IS combatte le milizie di Hezbollah, alleate di Assad – e soprattutto la Palestina. Il governo di unità nazionale tra Al Fatah ed Hamas è un fantasma. Il processo di pace è in stallo totale. La ricostruzione di Gaza, dopo la guerra del 2014, procede a rilento e il consenso di Hamas, al potere nella Striscia dal 2007, è in declino. Il Califfato vuole approfittare di queste fragilità. Gruppi salafiti, che hanno proclamato la fedeltà all’IS, hanno colpito alcuni siti in mano ad Hamas, come le stazioni di polizia, e hanno rivendicato il lancio di razzi contro il Sud di Israele. Il movimento al potere sembra non avere più il controllo completo della Striscia e al tempo stesso non può permettersi un’altra guerra contro lo Stato ebraico. Anche le relazioni con l’Egitto sono migliorate, di fronte a un nemico comune. I rapporti di forza non sono ancora chiari, ma l’eventuale presa di Gaza da parte del Califfato produrrebbe conseguenze molto difficili da gestire.

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