Università, le classifiche partigiane che fanno vincere l’Italia

Università, le classifiche partigiane che fanno vincere l’Italia

Insieme alla discussione sull’opportunità o meno di iscriversi alle lauree umanistiche, un’altra questione ha animato il dibattito sulle nostre università. Pochi giorni fa ha ricevuto parecchia pubblicità una classifica in cui gli atenei italiani si sono trovati ai primissimi posti, battendo perfino le più celebri università statunitensi. Ma quale affidamento possiamo fare a questo tipo di misurazioni?

Il 16 agosto Giuseppe De Nicolao, professore di ingegneria all’università di Pavia, ha pubblicato su Roars un articolo che si propone di smontare l’interpretazione prevalente delle classifiche Arwu, calcolando il value for money delle venti migliori università italiane rispetto a quello delle venti migliori università al mondo secondo la stessa classifica.

La conclusione dell’analisi di De Nicolao, molto ripresa in questi giorni, è che, tenendo conto del basso livello dei finanziamenti, gli istituti italiani se la cavano benissimo in termini di efficienza, molto meglio infatti delle top universities americane. L’articolo fa uso di una curiosa metafora automobilistica (equiparando i fondi a disposizione al carburante, ndr), che purtroppo trascura elementi importanti.

È un peccato che classifiche del genere vengano usate in modo strumentale e semplicistico per criticare il sistema universitario italiano

La classifica Arwu (Academic Ranking of World Universities) è una delle pubblicazioni annuali che si occupa di produrre una graduatoria universitaria, basandosi su criteri di eccellenza come il numero di premi Nobel prodotti in passato, quelli attualmente dipendenti degli istituti e, più in generale, il numero di accademici o pubblicazioni particolarmente influenti ad essi associate.

Questo tipo di misure sono in grado di dare un’idea molto limitata del contributo scientifico di un istituto di ricerca, e ancor meno della qualità della didattica. In effetti è un peccato che classifiche del genere vengano usate in modo strumentale e semplicistico per criticare il sistema universitario italiano.

Allo stesso modo è un vero peccato che, invece di innalzare il livello della discussione, molti difensori della nostra università si limitino a evidenziare problemi metodologici di queste classifiche o mostrarne discutibili manipolazioni, come se questo fosse sufficiente a concludere che, allora, tutto va bene.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

L’idea di De Nicolao è che abbia senso pensare ai finanziamenti come al carburante di un’automobile, mentre al punteggio delle università nella classifica Arwu come il numero di chilometri che questa riesce a percorrere. Calcolando in questo modo i chilometri al litro universitari, ottiene una misura di efficienza in cui le italiane vanno fortissimo.

Pur accennando brevemente alla problematicità della metafora, dopo aver ricordato che l’esercizio «non ha pretese di scientificità» (termine comunque inappropriato) conclude che tutto sommato può essere sensato, dato che la maggior parte degli indicatori usati sono di natura additiva. Il problema però è che indicatori di qualità come quelli usati nella classifica dipendono quasi sicuramente in modo non lineare dai fondi disponibili. Semplificando leggermente, se il rapporto fosse lineare, a un raddoppio dei finanziamenti corrisponderebbe un raddoppio della qualità secondo l’indicatore utilizzato, a una moltiplicazione per tre la qualità sarebbe triplicata, e così via. Oltre a questo, i risultati ottenuti hanno a loro volta un’influenza sui finanziamenti futuri.

Per illustrare il punto in modo semplice può essere utile un’altra metafora automobilistica. Una misura di performance molto diffusa è il tempo impiegato da una vettura ad accelerare da 0 a 100 chilometri orari. Ovviamente è solo uno dei tanti indicatori per valutare un’auto, ma fornisce una buona misura delle capacità del motore e viene spesso considerata dagli appassionati.

Sarebbe scorretto confrontare vetture con finalità di uso molto diverse in base alla loro capacità di accelerazione. Selezionando invece le varianti più sportive tra quelle disponibili per i diversi modelli, il contesto è reso maggiormente omogeneo e i numeri ottenuti danno un’idea delle differenze qualitative disponibili sul mercato.

Il seguente grafico mostra i valori di accelerazione media nel test sopra indicato per alcune auto da strada, piuttosto conosciute e attualmente in produzione. I dati tecnici sono quelli resi disponibili dalle stesse case produttrici, mentre i prezzi usati nel seguito si riferiscono ai modelli privi di optional venduti in Italia.

I risultati non sorprendono chiunque abbia un’idea delle auto in questione. Cosa accade se si prova a tener conto del prezzo delle rispettive auto, calcolando il costo per unità di accelerazione? La classifica si ribalta, mostrando un esempio di un fatto molto più generale: gli investimenti necessari a ottenere risultati man mano più importanti in termini qualitativi sono sempre più ingenti.

Chiunque si sia allenato in uno sport di prestazione ha sperimentato in prima persona il fenomeno. All’inizio si migliora facilmente, con investimenti in termini di tempo, impegno e energie mentali relativamente piccoli. Avvicinarsi alla frontiera, della forma fisica personale o scientifico/tecnologica che sia, è molto più difficile e anche per questo possiede tutt’altra importanza relativa.

Si tratta di istituti talmente diversi che fare confronti di questo tipo in assenza di informazioni molto più dettagliate è soprattutto fuorviante

Cosa si può concludere sull’efficienza delle università italiane rispetto alle migliori università nella classifica ARWU? Probabilmente che si tratta di istituti talmente diversi, in termini di fondi a disposizione, obiettivi e – innegabilmente – numero di premi Nobel tra i docenti, che fare confronti di questo tipo in assenza di modelli e informazioni molto più dettagliate è soprattutto fuorviante.

La seconda metafora automobilistica rende chiaro anche un secondo punto. Dato che tutti i modelli automobilistici citati occupano con successo una loro nicchia di mercato, e che è comunque presente notevole competizione per queste posizioni, si può intuire che è possibile essere efficienti nella produzione a diversi livelli di qualità. Riuscire a costruire un’ottima utilitaria non è la stessa cosa che produrre un’ottima berlina di lusso. Efficienza, insomma, non è sinonimo di eccellenza qualitativa.

Questo punto è importante. Mentre è generalmente corretto promuovere un efficiente uso delle risorse, sarebbe sbagliato appiattire la discussione sull’università soltanto in termini di eccellenze. Accettare quindi l’importanza di altre dimensioni nel mercato non significa dover rinunciare all’efficienza. Il Paese ha un gran bisogno di semplici centri di formazione, che svolgano bene il loro ruolo pur non impiegando ricercatori di fama mondiale, ad esempio.

Un’ulteriore osservazione è fondamentale, quando si fanno questo tipo di confronti. L’entità dei finanziamenti disponibili è endogena, nel senso che è determinata dalla qualità delle scelte delle stesse università, dalle risposte del contesto in cui si trovano e da altri fattori. Harvard non è diventata quello che è perché fortunatamente fondata su un pozzo di petrolio. La notevole entità di donazioni che riceve ogni anno riflette i grandi successi ottenuti ora come in passato dall’istituto.

Questo significa che è inevitabilmente fuorviante porsi la domanda “Cosa potrebbe essere La Sapienza con un finanziamento annuo per studente pari a quello di Stanford?”. Sicuramente otterrebbe risultati migliori di quelli attuali ma ci sono motivi ben precisi, che non si esauriscono nella miopia della politica italiana, per cui Stanford ha accesso a determinati capitali e La Sapienza no.

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