Quello che potrebbe mettere in atto Janet Yellen, numero uno della Federal Reserve, è solo un aumento di 0,25% dei tassi di interesse. Probabilmente sarà anche l’ultimo per parecchi trimestri. Ma gli equilibri economici sono così fragili, e così vividi i ricordi della crisi del 2008 e del 2011, che anche una mossa, teoricamente insignificante e preparata da mesi, si sta trasformando in un evento cataclismatico per i mercati finanziari.
La normalizzazione della politica monetaria della Fed potrebbe ridisegnare profondamente la geografia finanziaria mondiale. E, in parte, ha già iniziato a farlo
La decisione della Fed, la banca centrale statunitense, vista con le lenti dell’economia “reale” domestica, potrebbe sembrare un non-problema. La disoccupazione è al 5,1%, poco sopra quello che gli economisti reputano la piena occupazione. Il Pil cresce ininterrottamente dal 2009. Ma il cambio di direzione della politica monetaria americana ha sempre rappresentato un passaggio molto delicato per l’economia mondiale. L’area del dollaro si estende ben oltre i confini statunitensi, inglobando buona parte delle economie emergenti, già alle prese con la fine del super-ciclo cinese e delle commodities. Accelerando aggiustamenti, necessari ma sopiti da un lungo e forse irripetibile periodo di credito facile, la normalizzazione della politica monetaria della Fed, per quanto graduale e modesta nella sua entità, potrebbe ridisegnare profondamente la geografia finanziaria mondiale. E, in parte, ha già iniziato a farlo. Basti pensare alla decisione del 10 agosto della Banca centrale cinese di abbandonare il peg con il dollaro. Un tentativo di isolare l’economia cinese dalle conseguenze implicitamente restrittive di un imminente rialzo dei tassi Usa. Ma anche l’apertura di una linea di faglia nella grande area valutaria del dollaro, che di fatto copriva tutto il Pacifico e che reggeva dalla grande crisi asiatica di fine anni ’90. Abbastanza scontato che l’assestamento durerà e dovremo abituarci.
Alle preoccupazioni geo-valutaria, si aggiunge un’altra incognita e riguarda la “liquidità” dei mercati finanziari, cioè la loro capacità di assorbire e processare ordinatamente i riaggiustamenti di portafoglio che possono seguire ad eventi di importanza sistemica. Può sembrare paradossale preoccuparsene in un mondo inondato di dollari, yen, sterline, euro … ma, le oscillazioni estreme delle Borse questa estate e le conclusioni a cui sono giunte la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) e la società di consulenza PwC in due studi indipendenti, pubblicati in marzo e in agosto, non sono molto confortanti. Anche per i giganteschi mercati obbligazionari, che a differenza dei mercati azionari non guadagnano quasi mai le prime pagine dei giornali, ma rappresentano la spina dorsale del sistema finanziario.
Si può ingrandire quanto si vuole la porta di uscita, ma se tutti vogliono uscire dal locale nello stesso istante, è impossibile evitare la ressa e il panico
Il problema della liquidità è multi-dimensionale e sta nella grandezza del mercato rispetto all’economia, nella composizione dei suoi attori e nelle modalità di funzionamento. Anche senza guardare all’aumento dello stock di titoli del debito pubblico, nel solo 2014 in Europa sono state emesse obbligazioni corporate di qualità investment grade per 435 miliardi di dollari e obbligazioni spazzatura per 132 miliardi. Prima della crisi, nel 2005, le cifre erano state rispettivamente pari a 156 miliardi e 20 miliardi. Se la crescita dimensionale fosse andata di pari passo con un aumento della numerosità e della eterogeneità funzionale degli operatori che partecipano al mercato non ci sarebbero grosse preoccupazioni. Ma questo non è accaduto. Da un lato, si assiste alla concentrazioni di masse enormi in pochissime case di gestione (le varie BlackRock, Pimco, …). Dall’altro, la regolamentazione ha imposto l’applicazione di metodiche comuni di controllo del rischio, che tendono a creare comportamenti simili e sincroni da parte di soggetti in precedenza caratterizzati da funzioni di reazione differenziate, come ad esempio le banche e le assicurazioni. Usando la metafora della Bri, si può ingrandire quanto si vuole la porta di uscita, ma se tutti vogliono uscire dal locale nello stesso istante, è impossibile evitare la ressa e il panico.
Ma la porta è stata poi allargata o ristretta dalle riforme nate dalle ceneri della crisi del 2007-2008? Alan Greenspan ha espresso la sua visione critica recentemente. Esiste il dubbio che riforme come la “Volcker rule” abbiano reso più sicure le banche, ma al prezzo di rendere meno efficiente il mercato. Tra il 2008 e il 2015, a causa dei nuovi limiti regolamentari e del maggior assorbimento di capitale, PwC stima che le banche europee abbiano ridotto del 45% la dimensione del magazzino titoli necessario per l’attività di sostegno alla negoziazione e le banche americane del 60 per cento. Da una recente indagine sul mercato dei corporate bond americani, è emerso che solo per un ottavo delle emissioni, quelle più recenti e relative agli emittenti maggiori, sono disponibili continuativamente quotazioni in acquisto e in vendita.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Questa illiquidità latente non è un grosso problema fino a quando sul mercato c’è un “compratore di ultima istanza”, come la banca centrale con il Qe. E fino a quando le aspettative future sono di ribasso dei rendimenti (e quindi rialzo dei prezzi). Ma cosa succederà se e quando gli investitori percepiranno che il ciclo trentennale dei bond è giunto al termine? La ripetizione di quanto accaduto nel 2007 e nel 2008, quando i mercati collassarono rendendo necessario un intervento pubblico su scala mai osservata in precedenza, sarebbe un colpo gravissimo per la legittimità del capitalismo finanziario.