Nel 1930 Sinclair Lewis, primo scrittore americano a ricevere il Nobel per la letteratura, non ci è andato leggero nel descrivere il panorama culturale della madrepatria durante il discorso di accettazione. «Il romanziere americano», diceva, «Deve lavorare in isolamento, non potendo contare su nessun supporto se non quello della propria integrità». L’America era un territorio di cultura sconquassata, secondo Sinclair, e di critica inesistente. Si dava priorità alla valorizzazione e all’esportazione del cinema e dell’architettura, a discapito della letteratura. Lasciata a marcire in qualche angolo, immemore della giovane tradizione del dopo Mark Twain e Walt Whitman. «In futuro verrete a conoscere i nomi di alcuni giovani autori dimenticati, abbandonati a se stessi», continuava, dipingendo il quadro di una terra becera e provinciale, che non assomiglia per niente al centro della letteratura mondiale che era destinata a diventare. Su una cosa aveva ragione: di giovani ne sarebbero passati parecchi per i tavoli della commissione svedese. Alcuni sarebbero stati presi in considerazione, molti altri meno, alimentando l’idea di snobismo europeista che ogni anno accende le voci attorno all’assegnazione del premio.
Alla commissione piaceva Lewis perché criticava il proprio Paese apertamente. Era dalla loro parte e non lo lasciava intendere, ma lo veniva a dire. Prediceva l’avvento di Eugene O’Neill, che avrebbe vinto nel 1936 e di T.S. Elliot, nel 1948. Non poteva sapere di Faulkner, Hemingway e Steinbeck. Certamente non aveva idea di chi fosse Saul Bellow, che all’epoca aveva solo quindici anni, né Derek Walcott o Toni Morrison, che non era ancora nata e sarebbe stata l’ultima americana a ricevere il premio, nel 1993.
La penuria di Nobel provenienti dal suolo americano ha un che di paradossale, naturalmente, vista l’abbondanza e la varietà delle voci che lo popolano
La penuria di Nobel provenienti dal suolo americano ha un che di paradossale, naturalmente, vista l’abbondanza e la varietà delle voci che lo popolano. Tredici è un numero insignificante, se si pensa che il settanta percento dei libri tradotti dall’inglese provengono da questa parte del mondo. Reso ancora più ridicolo dal fatto che, in nome di una presunta maggiore internazionalità più supposta che ricercata, tre dei cittadini statunitensi a convincere la commissione erano in realtà esuli che avevano ottenuto la cittadinanza da adulti: Isaac Bashevis Singer, tedesco, Czesław Miłosz, polacco e Aleksandar Brodskji, russo. Di più: erano tutti rimasti legati all’Europa anche nell’uso lingua natale che avevano scelto di non abbandonare. Colpa di cui invece si è macchiato il primo dei grandi esclusi e il più americano tra gli scrittori russi, Vladimir Nabokov. «Gli Stati Uniti sono arroccati nel loro isolamento», ha dichiarato nel 2008 l’allora segretario permanente della Commissione per l’Assegnazione del Nobel Horace Engdahl. «L’Europa è ancora il centro culturale del mondo». Senza nulla voler togliere alla tradizione letteraria europea, è probabile che Engdahl avesse in mente un panorama inesistente, scivolato al di là dell’Atlantico all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2009, il nuovo segretario Peter Englund ha preso le distanze dalle posizioni del suo predecessore, riconoscendo — alla buon’ora! — l’importanza della letteratura americana nella cultura mondiale. Salvo poi premiare Herta Müller, poetessa tedesca sconosciuta alla maggior parte di critici statunitensi, sollevando una nuova indignazione.
Tredici è un numero insignificante, se si pensa che il settanta percento dei libri tradotti dall’inglese provengono da questa parte del mondo
Dietro la diffidenza della commissione svedese nei confronti degli americani, mascherata da scarsa considerazione, si cela la paura che il mercato libraio statunitense finisca per eclissare l’industria europea, come ha fatto per il cinema e per la televisione. Definire gli Stati Uniti un arroccamento dei valori sorpassati, però, era accettabile negli anni Trenta. Adesso è semplicemente stupido. La presa di posizione è talmente evidente che non fa nemmeno più scalpore. Nel 1974, quando Graham Greene, Saul Bellow e Nabokov sono stati esclusi a favore di Eyvind Johnson e Harry Martinson, entrambi svedesi ed entrambi membri della commissione, ci sarebbe stato da gridare allo scandalo. Oggi, al di là delle baggianate come il totonobel che si scatena puntualmente sui social, si alzano le spalle in risposta una fastidiosa ma familiare consuetudine. Sono fatti così.
Il Nobel soffre di un problema di snobismo e che sta sempre di più cadendo nell’arroccamento ottuso di cui accusa gli Stati Uniti.
Nel 2013 il New Yorker suggeriva che non fosse la chiusura degli Stati Uniti a spaventare gli svedesi, ma la loro eccessiva apertura. Riconoscergli anche il diritto di vincere qualche Nobel assegnerebbe all’impero un feudo che fino ad ora non è riuscito ad annettere, condannando definitivamente il mercato. «Sembra che il Nobel venga usato come un referendum internazionale sull’egemonia americana», per citare alla lettera. Per i detrattori si tratta di una questione di lingua e di tradizione culturale. L’inglese occupa già la maggior parte dello spazio dato a disposizione alle arti visive e la cultura americana impregna i mezzi di informazione. Il regno di Svezia farebbe da ultimo avamposto per la resistenza multiculturale. Ci sono due però: il primo è che nella storia del Nobel sono stati premiati più autori svedesi — spesso di cui non si era mai sentito parlare prima e di cui ora che sono spariti non si sente la mancanza — che autori provenienti dall’intero continente asiatico. Il secondo è che sessanta milioni di americani parlano come prima lingua qualcosa di diverso dall’inglese. Senza contare le provenienze e la ricchezza di un Paese fondato sull’immigrazione che conta nella sola città di New York centinaia di diverse etnie provenienti da ogni parte del mondo, basta dire che il New Jersey di Philip Roth è completamente diverso dal New Jersey di Junot Díaz.
Arrivati a questo punto si potrebbero facilmente ribaltare le carte con tutto il tavolo e citare gli esclusi a partire da Tostoji fino ad arrivare a Roth, passando per Chekov, Twain, Zola e Ibsen. La questione, però, si è fatta talmente noiosa che viene più facile ammettere che il Nobel soffre di un problema di snobismo e che sta sempre di più cadendo nell’arroccamento ottuso di cui accusa gli Stati Uniti. Non sono gli uni a rimanere chiusi fuori, ma gli altri a chiudersi dentro, insomma. E forse è giusto che sia così. Se non altro, togliendosi dalla testa il mito del Nobel come eccellenza oggettiva, ogni anno si può godere del piacere di stare a vedere come se la cava un poeta remoto a nuotare tra romanzieri da centinaia di migliaia di copie. La maggior parte degli americani non hanno di queste aspirazioni. O ancora, si può chiudere con una citazione definitiva, presa in prestito da uno che il Nobel non lo riceverà mai. Cantava Leonard Cohen con finto menefreghismo: «That’s all, I don’t even think of you that often». Tutto qui, il vostro premio non ci piace nemmeno.