Sulla fuga dei giovani stiamo sbagliando tutto

Chi sono davvero gli expat? Non sappiamo davvero né quanti sono, né se le politiche pro-rientro funzionano. A Meetalents si prova a fare il punto sul fenomeno

L’Italia è sempre più un Paese povero di nuove generazioni (e con nuove generazioni sempre più povere). Non solo per le conseguenze di oltre tre decenni di bassa natalità che hanno prodotto un enorme squilibrio in Italia tra over 60 e under 30, ma anche perché negli ultimi anni è fortemente cresciuto il numero di persone che se ne vanno altrove. E ad andarsene non sono gli over 60 ma soprattutto gli under 30. Nei paesi più avanzati la risorsa più preziosa per crescere sono proprio le nuove generazioni.
Le economie più competitive sono quelle che: a) investendo sulla formazione, aiutano i giovani a formare competenze in sintonia con il mondo che cambia; b) investendo sulle politiche attive, consentono di mettere in relazione positiva le competenze dei giovani con le necessità del mercato del lavoro; c) investendo su ricerca e sviluppo, consentono l’espansione della domanda di lavoro di qualità nei settori più dinamici e avanzati. Noi su tutti questi punti investiamo meno della media europea e non a caso ci troviamo con una delle percentuali di Neet (under 35 che non studiano e non lavoro) tra le più alte, ma anche con crescente saldo negativo tra talenti che se ne vanno e quelli che attraiamo da altri paesi.

La mobilità delle nuove generazioni non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia e non è solo legato al momento storico di difficoltà che incontrano i giovani nel nostro paese. Rispetto alla capacità di comprenderlo e gestirlo nel modo migliore ci si scontra però nel nostro paese con quattro cruciali limiti (che verranno discussi nell’annuale meeting dedicato agli Expat, Meetalents 2015, www.meetalents.it).
Il primo limite riguarda i dati. Noi non sappiamo davvero quanti sono i giovani italiani che oggi vivono all’estero. Sia i dati di stock dell’Aire (Anagrafi italiani residenti all’estero) sia i dati di flusso dell’Istat, basandosi solo sui trasferimenti di residenza, sono fortemente sottostimati, soprattutto relativamente all’emigrazione più recente. Poche sono inoltre le informazione sulle caratteristiche dei nuovi fuoriusciti, l’attività che svolgono, motivazioni, intenzioni e progetti di vita. Seppur parziali tali dati, come documenta l’ultimo Rapporto “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, ci dicono che il fenomeno è in continua crescita. I dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo ci dicono inoltre che per la prima volta il numero di studenti italiani che dicono di prendere in concreta considerazione l’opzione estero è negli ultimi anni diventato maggioritario.

Noi non sappiamo davvero quanti sono i giovani italiani che oggi vivono all’estero. Poche sono inoltre le informazione sulle caratteristiche dei nuovi fuoriusciti

Il secondo limite riguarda la rappresentazione che nel dibattito pubblico viene data di questo fenomeno. I mass media negli ultimi anni si sono sempre più interessati dei giovani che lasciano il paese ma fornendone una interpretazione spesso distorta e banalizzata. I due termini più utilizzati, quello di “fuga” e di “espatrio”, sono anche quelli meno in grado di cogliere e rappresentare la novità rispetto al passato della nuova propensione alla mobilità verso l’estero. Non c’è solo, sul versante quantitativo, una inaccurata esagerazione o minimizzazione delle dimensioni del fenomeno, ma ancor più, sul versante qualitativo, una incapacità di leggere i cambiamenti profondi nelle motivazioni, nelle modalità e nelle implicazioni dell’avventurarsi delle nuove generazioni oltre i confini. Di questi mutamenti non c’è quasi alcun riscontro nel dibattito pubblico italiano.

Il terzo limite è quello delle politiche. Avere dati inadeguati e una narrazione mediatica distorta non aiuta a produrre scelte politiche mirate ed efficaci. Sbaglia sia chi pensa che la questione sia irrilevante e non ci sia nulla da fare, sia chi pensa che la soluzione sia frenare l’uscita. I paesi più competitivi sono quelli che hanno più talenti (nell’accezione più ampia del termine) e che ne attraggono di più. Il punto su cui agire con politiche specifiche non è tanto l’uscita, ma l’entrata. Bisogna infatti allo stesso tempo migliorare la possibilità di valorizzazione del capitale umano dei giovani in Italia e agevolare la possibilità (non l’obbligo) che chi ha fatto una esperienza di studio e lavoro all’estero possa riportarla come valore aggiunto nel territorio di origine (ma anche attrarre giovani altrettanto qualificati da altri paesi).
Nessuna politica finora attuata in Italia è stata davvero di successo in quest’ultima direzione. La misura più rilevante è la legge “controesodo” (n. 238/2010), che riconosce rilevanti incentivi fiscali a laureati under 40 che tornano in Italia dopo almeno due anni di esperienza formativa o di lavoro all’estero. Di tale misura non è stata prevista nessuna valutazione di impatto. Non sappiamo quindi se davvero abbia funzionato o meno. L’aspetto positivo era l’essere stata presentata, discussa e perfezionata interagendo con esperti e comunità di giovani italiani all’estero.
Questo metodo virtuoso di condivisione delle proposte che riguardano gli Expat stessi (i potenziali beneficiari) è però di colpo saltato con il recente decreto “Internazionalizzazione” (art. 16 dlgs. n.147/2015) che ha cambiato i criteri di accesso ai benefici senza alcuna valutazione trasparente dell’esperienza precedente. Molti “controesodati” si sono così trovati a metà del guado, con un contratto di lavoro all’estero lasciato alle spalle e di fronte un paese che conferma tutte le sue contraddizioni e incertezze del quadro legislativo.

Nessuna politica finora attuata in Italia è stata davvero di successo in quest’ultima direzione. La misura più rilevante è la legge “controesodo”. Ma di tale misura non è stata prevista nessuna valutazione di impatto. Non sappiamo quindi se davvero abbia funzionato o meno

Le carenze sui tre punti sopra trattati sono anche la conseguenza del quarto limite: la mancanza di adeguata rappresentanza. I giovani italiani all’estero sono attualmente una generazione che per evitare di essere persa si è “dispersa”. Formano ora un insieme di tante voci spesso isolate. Le associazioni nate spontaneamente all’estero agiscono indipendentemente tra di loro e sono interessate soprattutto a dare supporto nello specifico contesto di destinazione. Molto criticata è anche la gestione dei Comites (gli organismi elettivi istituiti nel 1985 per rappresentare la collettività italiana residente all’estero), sia per l’inefficienza organizzativa che per l’incapacità di diventare vero punto di riferimento per le comunità oltre confine. Sono spesso affidati a membri della vecchia emigrazione con un approccio e una sensibilità poco in sintonia con i processi più recenti.

I giovani dinamici, intraprendenti, iperconnessi e innovativi, che hanno lasciato l’Italia in questo secolo appartengono ad un mondo molto diverso da chi è emigrato negli anni Settanta o ancor prima. E’ con questi giovani che l’Italia deve stipulare un patto di alleanza per la propria promozione all’estero in una chiave completamente rinnovata. Per farlo serve però una forma di rappresentanza riconosciuta, ma anche libera e fluida, tutta da inventare e costruire. C’è una giovane Italia all’estero, con potenzialità enormi, che attualmente non conta quasi nulla nel sistema paese non solo perché nessuno l’ascolta ma anche perché non riesce a darsi strumenti nuovi ed efficaci per farsi sentire.

Superare questi quattro limiti è indispensabile per non subire gli effetti negativi della mobilità delle nuove generazioni e coglierne anzi le opportunità in sintonia con le nuove sfide di questo secolo. Questo è possibile solo facendo diventare il più e meglio possibile una scelta, quella di partire, non una necessità. Non una fuga, ma la realizzazione di un desiderio di apertura al mondo e a nuove esperienze di vita e lavoro. Allo stesso modo, anche il rientro dovrebbe diventare il più possibile una scelta. Dopo essere partiti, non ci si deve rassegnare a rimanere esiliati altrove solo per carenza di opportunità di ritorno. L’arricchimento in termini di conoscenze, competenze e abilità ottenuto all’estero deve poter essere riportato con successo nel territorio di origine. Ed infine deve essere una scelta anche quella di rimanere all’estero, senza per questo rinunciare a sentirsi parte attiva del processo di cambiamento culturale, sociale ed economico del paese di origine. Questo significa potenziare non solo la possibilità di circolazione e attrazione dei talenti, ma anche gli strumenti per un loro contributo attivo pur rimanendo fuori dai confini italiani.
Il modo migliore per perdere la sfida che la nuova mobilità internazionale pone è rendere la fuga una necessità, l’espatrio una condizione senza uscita, l’eventuale ritorno una sconfitta. E’ vero che la politica ha le maggiori colpe, ma stiamo tutti facendo troppo poco per evitare questo nefasto scenario.

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