Nella guerra verbale tra Matteo Renzi, il suo governo e i guardiani dei trattati europei il premier italiano si riferisce spesso a Regno Unito e Spagna come Paesi che proprio grazie al mancato rispetto dei parametri di Maastricht sarebbero riusciti a ottenere quella crescita che li mette in cima alle classifiche europee.
Questa allusione renziana, oltre a rendere forse evidente il sogno segreto del nostro premier di sforare il 3% di deficit, riporta nel dibattito il caso di due Paesi che, è vero, si stanno distinguendo in Europa, ma non certo per la rilassatezza nel controllo dei conti pubblici.
Al contrario, il Regno Unito ha portato il deficit dal 10,2% del 2010 al 4,9% del 2015, mentre la Spagna l’ha diminuito dal 11% del 2009 al 4,3% del 2015, e ogni osservatore o investitore internazionale sa guardare i dati anche da un punto di vista dinamico e, per esempio, valutare più positivamente un Paese che fa calare il proprio deficit di sei punti in pochi anni di quello che rimane sotto il 3% ma lo fa aumentare rispetto alle previsioni e alle promesse.
D’altro lato tale diminuzione è avvenuta in gran parte grazie a tagli di spesa. Anzi, la crescita stessa del Pil è riuscita ad avere luogo nonostante l’imponente spending review, a dispetto delle teorie che vogliono l’economia reale sempre danneggiata dai tagli, qualunque taglio.
Il Regno Unito, che nel 2015 è cresciuto del 2,2%, ha realizzato risparmi poderosi in gran parte dei settori dal 2010. I budget sono stati decurtati anche del 40-50% in settori chiave come giustizia, lavoro e pensioni (a proposito, nel Paese di Cameron la pensione di reversibilità di fatto non esiste), affari interni, cultura, media e sport.
Tagli non lineari, ma sostanziosi, che hanno, assieme alla crescita, provocato un calo di più di 5 punti dell’incidenza della spesa sul Pil dal 2009 al 2014, nello stesso periodo in cui in Italia rimaneva stabile, e in Spagna calava di un buon 1,3% nonostante il tonfo del prodotto interno lordo a denominatore.
Il risultato è un’Europa ancora più divisa nella spesa pubblica rispetto al Pil, con l’Italia ormai sopra il 50% e Spagna e Inghilterra con un’incidenza di 7-8 punti inferiore.
La Spagna, appunto. Si tratta probabilmente del Paese che dopo la Grecia e la piccola Islanda ha affrontato i tagli più dolorosi in termini reali. Che hanno impattato sui settori più centrali, sanità, educazione, servizi primari. Calcolando la spesa reale per abitante, si è tornati, per quando concerne ad esempio alla spesa per l’educazione, a livelli inferiori al 2002, e a una spesa del 30% inferiore anche per la sanità.
Certo, in parte si è trattato di una correzione degli aumenti di spesa che negli anni di Zapatero erano stati i più generosi d’Europa, ma certo nuovi record sono stati poi toccati anche nell’inversione di rotta. La differenza con l’Italia è evidente e basta vedere il grafico riferito al nostro Paese per accorgersene.
Il governo italiano sottolinea che sono stati tagliati 25 miliardi in 3 anni, di cui 7 sono i risparmi previsti nel 2016 e ancora da verificare. Si tratterebbe in ogni caso di un calo del 3-3,5% della spesa primaria (esclusi gli interessi). Sempre, ovviamente, che a consuntivo non si scoprano aumenti imprevisti come quelli trovati da Unimpresa per il 2015, un anno con inflazione zero, peraltro.
Erano stati invece 27 i miliardi tagliati in un solo anno dal governo spagnolo di Rajoy appena insediatosi nel 2012, in un’economia già più piccola di quella italiana. E altri erano poi seguiti, tra risparmi imposti alla politica e alle tredicesime degli statali, solo per citare alcune scelte. Ora tuttavia la Spagna cresce del 3,2% – questo il dato per il 2015 – e sembra che avere osato abbia dato i suoi frutti.
Solo dal punto di vista economico però. E questo è un guaio. Perchè quello cui in Italia la classe politica guarda è il consenso, e il nostro premier non solo non fa eccezione in questo atteggiamento, ma lo rivendica. E in Spagna Rajoy il consenso l’ha perso su queste scelte politiche. È tutta qui la questione, insomma: tagliare non porta voti, e finchè la percentuale di voti nei sondaggi, per non parlare alle elezioni vere, sarà più importante di quella della crescita del reddito o dell’occupazione, quelle di Cottarelli & company saranno solo grida nel deserto