Che ne direste di ritrovarvi da un giorno all’altro senza assorbenti e dovervi arrangiare con delle garze d’ospedale. Che ne direste di non trovare più biro in giro e pagarle a peso d’oro al mercato nero. Di ritrovarvi a scucire vecchi vestiti della nonna e a riadattarli per la figlia. Di andare in cerca di fondi di sapone e farli bollire in un pentolone per ottenerne di nuovi. Che ne direste di essere nella Cuba sotto il bloqueo, l’embargo che grava l’isola dal 1960. E che nei primi anni Novanta, il periodo da cui arrivano queste immagini di povertà improvvisa, fa precipitare la popolazione in uno stato mai visto prima. Cade il Muro, l’Unione Sovietica si squaglia, assieme ai suoi aiuti. Il Pil crolla di un terzo in un anno, arriva la fame.
A poche miglia di distanza, gli Stati Uniti hanno l’occasione di aprire le porte allo storico nemico del campo socialista, sconfitto. Le chiudono. Nel 1992 e più ancora nel 1996 il blocco commerciale cessa di essere un insieme di regole che il presidente può scegliere di rinnovare o meno. Diventano legge: nessuna azienda americana può commerciare con Cuba, nessun cittadino americano può andare nell’isola come turista. Fin qui, roba vecchia. Però ora nessuna azienda, di tutto il mondo, può commerciare con Cuba, pena il divieto di commerciare anche con gli Stati Uniti. Si arriva così alle fughe in barca verso Miami e alla sparizione degli assorbenti e delle biro spariti, assieme ai farmaci e alle apparecchiature elettro-medicali. Anni dopo, nel 2006, si inaspriscono anche le pene: fino a 10 anni di carcere o 250mila dollari nelle cause penali per gli individui che violano l’embargo, fino a un milione di dollari per le aziende.
Nel 1992 comincia però anche un altro processo: il resto del mondo manda segnali all’America. Cominciano le risoluzioni dell’Onu di condanna dell’embargo. Alla prima votano a favore in 59, con 3 contrari e 71 astenuti. Va avanti così per 24 anni di fila, con la sola differenza che i voti, all’ultima votazione, settembre 2015, sono diventati 191 a favore e due contrari, Usa e Israele. Nel frattempo, il 17 dicembre 2014, un presidente nella parte finale del secondo mandato alla Casa Bianca aveva detto una frase: “Todos somos americanos”. La grande svolta era iniziata: Barack Obama parlava di quanto la misura di blocco commerciale avesse fallito i suoi obiettivi principali – provocare una rivolta e abbattere il regime – tranne uno, che era la premessa per gli altri: provocare forti disagi alla popolazione.
Nel 1992 cominciano le risoluzioni dell’Onu di condanna dell’embargo. Alla prima votano a favore in 59, con 3 contrari e 71 astenuti. Va avanti così per 24 anni di fila, con la sola differenza che i voti, all’ultima votazione, settembre 2015, sono diventati 191 a favore e due contrari, Usa e Israele
Il 22 marzo Obama sarà a L’Havana per uno storico summit tra Usa e Cuba. Storico in primo luogo per lui, che in politica estera può mostrare solo questa vittoria, assieme al disgelo con l’Iran e alla transizione democratica in Birmania. Cosa potrà cambiare con la visita è tutto da capire. Quello che dicono i cubani è che a L’Havana in questi giorni c’è grande concitazione. «C’è effettivamente fermento e inquietudine per presentare la città al meglio e per finire a tempo i preparativi», spiega Sheila Sanchez, cresciuta a Cuba, dove vive la famiglia, e oggi ricercatrice a Barcellona. Quello che dicono i cubani è anche che da quella frase di Obama, passando per l’incontro con Raul Castro e per l’apertura delle rispettive ambasciate a Washington e a L’Havana, di effetti concreti se ne sono visti pochi. «Forse qualcosa sta cambiando a livello di rapporti diplomatici, ma per le persone comuni non è cambiato niente dal dicembre 2014», aggiunge Sheila.
Le persone si sono accorte che le patate scarseggiano dal 2014. Continuano a vedere che nei negozi alcuni beni come lo shampoo e la carta igienica arrivano con cadenza imprevedibile e quando ci sono conviene prenderli. Sempre che i soldi ci siano, e questo davvero non è scontato. «Mia madre è medico e guadagna 1.463 pesos al mese, lo stipendio è già aumentato di tanto, prima ne guadagnava 500». Tanto o poco? Un chilo di latte in polvere costa 80 pesos al mercato nero. Come se da noi costasse 80 euro. I prezzi ufficiali sono quasi raddoppiati. Mentre l’olio costa circa 60 pesos, o 2,5 pesos convertibili. Quest’ultima moneta, usata per le transazioni dei turisti, vale circa 25 pesos normali. Viene usata anche per conteggiare beni di lusso quali le scarpe e i vestiti: si arriva a spendere 20 o 30 pesos convertibili, come se a noi costassero tra i 500 e i 750 euro.
Scollamenti tra stipendi e prezzi che danno la stura a mille espedienti. Ci sono le file di anziani che al mattino fanno la fila in edicola per prendere una copia del quotidiano di partito Granma e rivenderlo a prezzo maggiorato, le rivendite al mercato nero dei beni alimentari rubati dagli hotel, fino al mestiere più antico del mondo. Poi ci sono le nuove professioni rese possibili negli ultimi anni, i piccoli commerci individuali di dolci, l’ospitalità nelle casa particular, i passaggi dei tassisti (da 10 a 20 pesos una corsa standard a L’Havana). E più banalmente le cinghie che si stringono, con le colazioni con solo caffelatte e senza biscotti e le uscite che non prevedono consumazioni al bar. Più ci si allontana dall’Havana e si va verso le campagne, peggiore è la situazione.
«Forse sarà cambiato qualcosa ai piani alti, ma per le persone comuni non è cambiato niente dal dicembre 2014»
La povertà dipende tutta dal bloqueo? Decisamente no, dato che ci sono tutti i limiti di un’economia socialista, di una mancata diversificazione delle produzioni e delle esportazioni (oggi dominate dal nickel), di un affidamento al petrolio del Venezuela che si è dimostrato una semplice illusione, ora che il Paese guidato da Nicolás Maduro è sull’orlo dell’implosione. Però l’embargo ha effetti pesanti. Oltre ai fastidi per i beni di consumo che scarseggiano, ci sono i problemi che riguardano i trasporti e il settore sanitario. Succede, denuncia l’Associazione nazionale di amicizia Italia-Cuba in un video, che perfino i farmaci anti-tumorali per bambini vengano bloccati. È accaduto nel caso di un’azienda indiana, che forniva il principio attivo a basso prezzo, finché non è stata acquistata da un gruppo statunitense. Sempre più nazioni hanno preso a commerciare con Cuba, in barba all’embargo e nelle città si trovano anche auto, o pezzi di ricambio, provenienti da Germania e Giappone. I cellulari sono asiatici, anche se arrivano soprattutto grazie agli spalloni che giungono dall’Ecuador o dai cubani emigrati che tornano in patria. Asiatici sono anche la maggior parte dei prodotti più vari importati, mentre tutti i Paesi dell’America Latina sono abituati a vedere i negozi pieni di prodotti Made in Usa. I prodotti arrivano dalla Cina o da altri porti asiatici, in navi che, per effetto dell’embargo, per i sei mesi successivi non potranno approdare in un porto statunitense.
Quello che più danneggia l‘economia, però, non è il mancato afflusso di prodotti, ma l’esclusione dai circuiti finanziari internazionali. Tutto quello che passa dai circuiti bancari è a rischio di essere bloccato. «Perfino a noi, nel nostro piccolo, hanno bloccato un abbonamento da 300 euro per l’agenzia di stampa statale cubana e a lungo non abbiamo rivisto i soldi», dice Sergio Marinoni, presidente dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba. Banche europee sono state multate, come la Pnb Paribas, che nel 2015 ricevette una sanzione di 8,9 milioni di euro per violazione delle sanzioni.
Sempre più nazioni hanno preso a commerciare con Cuba e nelle città si trovano anche auto, o pezzi di ricambio, provenienti da Germania e Giappone. I cellulari sono asiatici, anche se arrivano soprattutto grazie agli spalloni che giungono dall’Ecuador o dai cubani emigrati che tornano in patria
I danni dell’embargo sono difficili da quantificare. Il governo cubano li stima in 685 milioni di dollari annui, per la Cuba Policy Foundation sono 4,5 miliardi all’anno in mancate vendite ed esportazioni. Un documento della Sace, la società pubblica italiana di assicurazione sul credito legato alle esportazioni, accredita una stima di 116,8 miliardi di dollari di danni per l’economia cubana in 54 anni, mentre quelli per gli Usa, in termini di mancate opportunità, sarebbero di 1,2 miliardi di dollari.
Anche per la poca sensatezza economica, crescono negli Stati Uniti le richieste del mondo economico di alleviare le sanzioni. Hillary Clinton, che pure fu First Lady durante gli inasprimenti dell’embargo negli anni Novanta, ha cambiato posizione. «L’embargo a Cuba deve finire, una volta per tutte – ha detto nell’estate 2015 -. Dovremmo rimpiazzarlo con un approccio più furbo che dia forza al settore privato cubano, alla società civile cubana e alla comunità cubano-americana per spronare il progresso e mantenere la pressione sul regime». Rispetto a Obama, in caso di elezione, molti osservatori prevedono dalla Clinton un approccio più prudente e ancora più graduale. Lo stesso Donald Trump, candidato repubblicano in opposizione a quelli di origine cubana Ted Cruz e Marco Rubio (poi ritiratosi), ha abbandonato le durezze di un tempo e sostenuto in parte gli sforzi di Obama: «Penso [che l’apetura a Cuba] sia una buona cosa, ma dovremmo fare un accordo migliore. Cinquant’anni sono abbastanza», ha detto al Daily Caller.
«L’embargo a Cuba deve finire, una volta per tutte»
Le sorti del bloqueo sono dunque nelle mani del prossimo Congresso. Quello che Obama può fare è continuare sulla strada dei piccoli passi che non richiedono di passare dal Parlamento. Cuba è stata tolta dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo. Uno stabilimento di trattori di una società dell’Alabama è in via di costruzione e le produzioni dovrebbero iniziare nel 2017. A partire dal 2009 sono stati facilitati i viaggi a Cuba dei cubani residenti negli Usa così come, successivamente, quelli di scienziati, religiosi, sportivi. Non ancora dei semplici turisti, il cui arrivo sarebbe anche una svolta per l’economia cubana: le previsioni sono di 1,5 milioni di viaggiatori statunitensi all’anno, che ingrosserebbero di parecchio i 3 milioni attuali (per lo più provenienti dal Canada e dall’Europa). Oggi i turisti americani stimati sono non più di 240mila all’anno.
La Sace lo scorso anno ha calcolato che tra il 2015 e il 2019 le riforme intraprese potrebbero portare in uno scenario positivo a 220 milioni di export in più dall’Italia
Anche le aziende italiane hanno aspettative. La Sace lo scorso anno ha calcolato che tra il 2015 e il 2019 le riforme intraprese (tra cui la Ley de Inversiòn extranjera e l’istituzione della Zona Speciale di Sviluppo Mariel) potrebbero portare in uno scenario positivo a 220 milioni di export in più dall’Italia (70 nello scenario negativo).
Le nostre esportazioni nel 2013, ultimo anno disponibile, erano pari a 268 milioni di euro (+8,4% rispetto al 2012) e si sono concentrate sulla meccanica strumentale, sulla gomma plastica, sui prodotti chimici e sugli apparecchi elettrici. Questo anche grazie a diverse missioni con imprese che sono state condotte nel Paese. I dati provvisori per il 2014 parlano però di una frenata del 17% (nei primi 10 mesi) per l’ancora stretto controllo dello Stato sulle importazioni, attraverso il sistema della licenza, per i limiti della disponibilità di valuta estera e per i ritardi nei pagamenti: attualmente sono negoziati a 360 giorni, a causa del deterioramento della bilancia dei pagamenti. I rischi, di conseguenza, sono ancora molti per gli anni a venire. Se si togliesse il bloqueo, l’economia cubana non ne potrebbe che guadagnare, dato che le sole esportazioni verso gli Usa sono stimate in 5,8 miliardi di dollari all’anno (le importazioni dagli Usa in 4,3 miliardi di dollari). Con essa, benefici ci sarebbero anche per le società italiane.