Elena Ferrante, un brodino pretenzioso che merita l’anonimato

Ci mancava pure che firmasse i suoi libri. Li abbiamo letti, e conoscendola di persona potrebbe venirci voglia di rinfacciarle, una per una, tutte le sua banalità spacciate per alta letteratura

Non lo vogliamo sapere. Vogliamo restare all’oscuro. Scoprire chi davvero si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante sarebbe una sciagura. Meglio la beata ignoranza in cui siamo visssuti in questi anni.

Sennò tocca andare lì – ovunque la scrittrice fantasma se ne stia nascosta – per sottoporla alla cura nannimoretti contro il critico reo di aver lodato il film “Harry pioggia di sangue”.
Toccherebbe tenerla ferma, leggendole ad alta voce certe sue frasi, e chiederle conto di tutte le banalità spacciate per sublime letteratura.

A cominciare da “L’amore molesto” e da “I giorni dell’abbandono”, clamoroso esempio di masochismo femminile. Ci sono là fuori maschi violenti, e maschi che scappano con ragazze più giovani; ma le donne quando smetteranno di appuntarsi sul petto la sofferenza d’amore come una medaglia?

La si poteva finire lì, senza farsi troppo male (anche mettendo nel mucchio il film diretto da Mario Martone e il film diretto da Roberto Faenza). Arrivò invece “L’amica geniale”, e fu la fine: Elena Ferrante conquistò le maestre democratiche, il ceto medio riflessivo, le cultrici della letteratura femminile, e soprattutto chi adora la Napoli da cartolina. No, non quella con il pino e il Vesuvio. L’altra Napoli, altrettanto da cartolina, con “la luce violacea nei cortili” e dei “sentimenti compressi ma sempre vicini a esplodere”.

«Scoprire chi davvero si nasconde dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante sarebbe una sciagura»

La strategia del nascondimento ricorda Salinger, e nel dizionario delle malattie letterarie appena pubblicato da Marco Rossari viene definita così: «terribile squilibrio che spinge il paziente a isolarsi, sebbene nessuno lo stia cercando».

Gli americani son sempre più avanti, alla fine hanno smesso di appostarsi. Elena Ferrante invece la cercano tutti, e tutti si farebbero volentieri un selfie con lei (i grandi scomparsi della letteratura americana vanno a fare una capatina nella serie “I Simpson”). Lasciarla in pace, come da suo espresso desiderio, sarebbe il dispetto più grande, sempre secondo la scuola nannimoretti: “mi si nota di più se vengo e sto in un angolo, oppure se non vengo del tutto?”

«La narratrice e l’amica geniale non hanno niente di appassionante, e niente di appassionante hanno le cose che succedono. È un’operazione congegnata a tavolino, che ha incantato gli americani come prodotto da esportazione (dovrebbero vendere i suoi libri da Eataly)»

L’ultimo a provarci è stato Marco Santagata, detective letterario convinto che lo scrittore non possa mai inventare fino in fondo: prima o poi gli scappa qualche dettaglio sulla propria vita vissuta. Un’idea un po’ ingenua della letteratura – “sono uno scrittore, invento”, spiegava paziente John Irving ai conoscenti che credeva di riconoscersi in qualche personaggio dei suoi libri – che lo ha portato alla Normale di Pisa.

Il dettaglio trova riscontro nell’esperienza del lettore che non trova in Elena Ferrante nulla di romanzesco. La narratrice e l’amica geniale non hanno niente di appassionante, e niente di appassionante hanno le cose che succedono. È un’operazione congegnata a tavolino, che ha incantato gli americani come prodotto da esportazione (dovrebbero vendere i suoi libri da Eataly). E può pure darsi che la traduzione migliori la scrittura, sempre più sciatta.

Non vogliamo sapere chi sia Elena Ferrante. Abbiamo letto i suoi libri, e siamo a posto così.

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