«L’inizio della fine dell’Unione Europea». Così il nazionalpopulista Gert Wilders ha definito trionfante il risultato del referendum nei Paesi Bassi con la vittoria del No all’Accordo di associazione (AA) tra Kiev e Bruxelles. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, ancora immerso nello tsunami dei Panama Papers, si è trattato di “un attacco all’unità dell’Europa”. Nella Bruxelles sotto shock il presidente della Commissione Jean Claude Junker ha fatto sapere tramite portavoce di essere “triste”. Un po’ pochino, ma sempre meglio del commento di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, che si è limitato a “prendere atto dei risultati”. Anche se in realtà la consultazione popolare in Olanda non ha carattere vincolante per il governo, gli effetti rischiano comunque di essere devastanti.
E in attesa di vedere quali saranno le decisioni all’Aia e a Bruxelles, è il caso di tentare di capire perché due olandesi su tre se ne sono fregati del voto e due su tre di quelli che sono andati alle urne hanno voluto bastonare il proprio governo, l’Europa e naturalmente l’Ucraina.
I binari sui cui ha viaggiato il fronte del No sino alla prevedibile vittoria sono stati essenzialmente due: da una parte l’euroscetticismo, ossia il pentolone in cui finiscono la questione delle debolezze economiche, degli immigrati, della burocrazia, del terrorismo islamico e di tutte le nefandezze possibili attribuibili all’Unione da parte di chi sta dentro; dall’altra il dossier vero e proprio ucraino, non tanto nella specificità dell’Accordo di associazione, quanto nelle vicende che hanno coinvolto e coinvolgono l’ex repubblica sovietica, a partire dalla rivoluzione del 2014 contro Victor Yanukovich per arrivare alla guerra nel Donbass ancora in corso e ai rapporti tra Unione Europea e Russia. E a fabbricare quest’ultimo disastro, a partire esattamente dal tema dell’Accordo, è stata la stessa Unione Europea, miope, disunita, senza strategia.
E’ il caso di tentare di capire perché due olandesi su tre se ne sono fregati del voto e due su tre di quelli che sono andati alle urne hanno voluto bastonare il proprio governo, l’Europa e naturalmente l’Ucraina
Basta fare un paio di passi indietro e ricostruire i passaggi chiave degli ultimi quattro anni, da quando l’AA era pronto da firmare, già parafato, nella primavera del 2012. Allora a Kiev c’era ancora Yanukovich e l’Ucraina si apprestava ad ospitare gli Europei di calcio.
Di fronte alla condanna di Yulia Tymoshenko per abuso di potere, Bruxelles pose però l’aut aut al presidente che in realtà aveva già spianato la strada per l’Accordo: niente firma se l’eroina della rivoluzione arancione non lascia le patrie galere. A Kiev si sapeva benissimo che Yanukovich non avrebbe graziato la rivale e per più di un anno l’Ue ha coltivato l’illusione, mentre la Russia stava alla finestra.
Solo nell’estate del 2013, quando Mosca ha aumentato la pressione su Kiev per riportare Yanukovich verso la propria orbita e a Bruxelles qualcuno suggeriva di firmare il benedetto accordo con Tymoshenko dietro le sbarre, la storia ha preso una piega diversa.
Il rifiuto ufficiale da parte ucraina di trovare un compromesso con l’Ue e il ripiegamento sul Cremlino, arrivato a sostegno con crediti miliardari e sconti sulla bolletta del gas, hanno condotto alle dimostrazioni di piazza che sono diventate per Bruxelles (e Washington) il grimaldello per scalzare lo scomodo presidente.
Dopo il bagno di sangue di Maidan l’Ue ha prima avallato il compromesso tra Yanukovich e l’opposizione, per poi voltare la faccia e dare il sostegno a un governo che, come previsto, non avrebbe certo cambiato il profilo del Paese e mantenuto le promesse di rinnovamento. Poco importa se una fetta d’Ucraina è andata smarrita tra Crimea e Donbass.Lo stallo politico-istituzionale, le riforme mancate, il disordine economico e l’ombra stabile degli oligarchi erano leggibili senza avere una sfera di cristallo. La reazione russa è stata sottovalutata o forse nemmeno prevista, le sanzioni sono finite in un vicolo cieco e la zappa tirata sui propri piedi
Lo stallo politico-istituzionale, le riforme mancate, il disordine economico e l’ombra stabile degli oligarchi erano leggibili senza avere una sfera di cristallo: bastava solo vedere a chi stava finendo in mano l’Ucraina in un semplice processo di ricambio elitario forzato dall’esterno.
La reazione russa è stata sottovalutata o forse nemmeno prevista, le sanzioni sono finite in un vicolo cieco e la zappa tirata sui propri piedi. Non ci voleva poi Mossak-Fonseca per scoprire che Poroshenko è ancora un oligarca (l’unico tra i dieci più potenti che nell’ultimo biennio ha accresciuto il proprio patrimonio) o che i soliti noti (Rinat Akhmetov, Igor Kolomoisky, Dmitri Firtash) tirano ancora le redini da dietro le quinte.
L’Ucraina, secondo Transparency International il paese più corrotto d’Europa, alla 130esima posizione al mondo su 168, è rimasta una nazione inaffidabile e incompiuta e la miopia delle cancellerie occidentali è ancora più grave se si pensa che si era già visto tutto, o quasi, dopo la rivoluzione arancione del 2004.
I cittadini olandesi, sicuramente quelli che sono andati a votare e con buona probabilità parte di quelli che sono rimasti a casa, sono meno orbi di quanto non lo siano i loro governanti, anche europei.
Il No al referendum è stato in questo senso anche la bocciatura della politica di vicinato che nel caso ucraino, con la colpa del non coinvolgimento della Russia, ha provocato più danni che altro, a Kiev come a Bruxelles.