Le interviste sono una roba strana: se fai domande brevissime o monosillabiche sembra che non te ne fregava un cazzo, se fai domande lunghissime e magari senza punto interrogativo sembra che ti volevi bullare. E allora? Allora si fa nell’unico modo conosciuto dagli esseri umani per starsene tranquilli e in pace per un po’, magari chiacchierando di cose più interessanti di un libro: bere birrette al bar.
A pensarci, soprattutto guardando chi va in ufficio ed esce dall’ufficio ogni giorno che Borges manda in terra, la prima cosa che il giovane professionista fa sedendosi al bar è sbottonarsi il colletto della camicia, allentarsi la cravatta, dire “aaaah” e ordinare il primo di molti Negroni. Dicendolo in altre parole, la chiacchiera al bar sancisce uno scarto tra una addomesticazione obbligatoria (il dress code, per esempio, ma anche semplicemente la scansione delle ore di lavoro) e una riappropriazione di sé non solo cerebrale ma anche, se non addirittura, fisica. L’estetica del finalmente.
Al bar si sta meglio, a bere le birre si sta meglio, a chiacchierare senza dover tenere conto di nessuna struttura narrativa soggiacente si sta benissimo. Ma allora perché privarcene? Perché costringere le attività umane in strutture predeterminate di domande e risposte, ruoli e gerarchie, sale riunioni e perdite di tempo, etichette e regole scritte con la mano sinistra?
E infatti noi non lo facciamo.
Benvenuti alla seconda puntata di “Molte birre con…”, la rubrica che prova a riportare i libri dove gli spetta: nell’etanolo. Dopo la sbronza la chiacchierata la sbronza con Giulio D’Antona sull’America, questa volta siamo insieme a Simone Sarasso, che ha scritto il primo di una luuunga serie di romanzi su cent’anni di criminalità organizzata a New York, dai primi del novecento ai giorni nostri: Da dove vengo io. Sempre efficacemente e sobriamente fotografati da Alberto Cocchi, che discorsi. Ecco come sono andate le cose.
Prima birra
Vedo che sei già bello carico, chissà dopo tutte queste birre obbligatorie per l’intervista.
Oggi è martedì e il martedì in piscina è il giorno dello spritz. Io e mia moglie portiamo il bambino in piscina apposta per prendere l’aperitivo: stiamo lì, fumiamo delle sigarette, beviamo e guardiamo i piccoli nuotare.
Fumate le paglie in piscina? Ma al chiuso?
No, no, all’aperto.
Al chiuso farebbe ridere, quando nuoti tossisci ogni volta che prendi respiro dopo qualche bracciata.
Potremmo parlare solo di questa eventualità.
Ma parliamo d’altro. Parliamo dello sbattimento che ti sei preso quella mattina quando ti sei svegliato e ti sei detto: ma perché fare un solo libro? Ma perché farne solo tre? Facciamone nove.
Dovrebbero essere nove ma chissà, magari ne vengono fuori dodici. Partiamo dall’inizio: qualche tempo fa ho visto un documentario sulla trilogia del Padrino e mi sono detto: che storia pazzesca. Ma sapevo che non era la storia originale, ed ero sicuro che qualcuno avesse già scritto qualcosa su ciò che è successo veramente. A quel punto sono partito dall’intuizione che ho all’inizio di ogni romanzo, ovvero: non so un cazzo. Non so un cazzo e devo documentarmi. Mi sono documentato e ho scoperto che non esistono libri scritti negli ultimi cinquanta o sessant’anni che raccontano la storia di Charlie Luciano, Meyer Lansky, Bugsy Siegel e Frank Costello, i quattro che volevano farsi re.
Va be’ che tu questa roba ce l’hai sempre avuta. Con Invictus, per esempio, hai scoperto che nessuno aveva mai scritto nulla di rilevante sull’imperatore Costantino. Hai il radar per le storie che nessuno ha ancora raccontato, direi che non è male per uno scrittore.
Non è affatto male. Comunque mi dico: voglio fare una trilogia strutturata così: il primo volume sui quattro ragazzi che ho appena citato, il secondo sulle cinque famiglie di New York e il terzo sulle nuove mafie, arrivando fino all’undici settembre. E prima di tutto mi è venuto in mente il titolo della serie, Cent’anni, quello che si dicono gli italoamericani come buon augurio. Per me era una figata, il titolo perfetto. E perché anche questa storia non dovrebbe durare cent’anni?
Ma infatti. Ogni tanto mi capita di discutere con qualche amico che non guarda le serie tv e motiva questa deficienza con il fatto che, insomma, non ho mica tempo di guardarmi centomila episodi, anche se sono una bomba. È una montagna troppo alta da scalare, guardandola dalle pendici. E io, questo ragionamento qui, non l’ho mai capito. Ma scusa, se trovi una narrazione che ti piace, per quale motivo non dovresti volerne il più possibile? Ci si scontra sempre contro questa assurda paura di perdere tempo, come se fosse sbagliato spenderne tanto su un’unica storia.
Ho letto da poco un articolo che parlava del ritorno quasi ottocentesco al massimalismo, alfouilleton, un po’ per le serie tv, un po’ finalmente per i libri. Ovviamente io sono stato sempre un grande sostenitore di questa roba qui e, secondo me, adesso c’è il margine per spingere l’acceleratore più a fondo. Se prima per fare una trilogia dovevi convincere a fatica l’editore, adesso è molto più semplice, anche se ne proponi nove. Pensa a Ellroy.
Continua a leggere l’intervista a Simone Sarasso sul sito di Finzioni.