«La parola chiave è finanza. Le banche oggi non sanno più fare credito, non sanno più capire chi ha un progetto valido, non sanno riconoscere un’azienda sana», attacca Paolo Agnelli, presidente della Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana (Confimi Industria), che aggrega gli scontenti fuoriusciti dai grandi sistemi associativi come Confapi o Confindustria. Il “signore delle pentole” come viene soprannominato Agnelli – alla guida dell’impero bergamasco dell’alluminio leader nella produzione di pentole – combatte da anni una battaglia per una rinascita industriale libera dalle greppie del bancocentrismo. «La nostra vera competitività? Il capitale umano, l’ esperienza degli operatori del manifatturiero e quella della denominazione, Made in Italy, conosciuta in tutto il mondo ma non tutelata a dovere».
Presidente Agnelli, in occasione delle sue considerazioni finali, il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, è tornato sul tema delle dimensioni delle imprese italiane, affermando che l’alta incidenza delle aziende di piccola dimensione nel nostro sistema produttivo resta un elemento di debolezza. Si tratta di un tema veramente così critico per l’economia italiana? È ancora vero l’assioma secondo cui piccolo è meglio o al contrario sarebbe ora di favorire processi di concentrazione dei sistemi produttivi?
Oggi la dimensione viene assunta a problema. Quasi a giustificare tutti i mali dell’economia reale. Mi domando se davvero si conosca la differenza tra una piccola, una media e una grande impresa. Si è grandi per il numero di occupati o per il fatturato o per la capacità di essere presenti in mercati importanti? Ogni qual volta salta fuori il discorso delle dimensioni mi vien voglia di chiedere ad accademici e pseudo economisti se una piccola impresa deve diventare grande per competere o diventa grande perché sa competere sui mercati internazionali. Mi domando se il diventare grande sia sinonimo del soddisfare i numeri e quindi i criteri di Basilea, essendo pertanto finanziabile, o viceversa se per crescere e diventare grande l’impresa debba poter ricevere i finanziamenti necessari. Il problema non è assolutamente dimensionale, ma capire come si possa oggi sopravvivere in Italia con una situazione di credit crunch mai cosi critica nei confronti delle imprese. A questi fattori estremamente negativi vanno aggiunti il costo dell’energia più caro al mondo; il costo del lavoro più alto in Europa; l’assenza di materie prime e un sistema fiscale che tassa il lavoro prima che inizi. Senza dimenticare l’Irap che incide ancora sugli interessi passivi che le aziende spendono per gli eventuali investimenti. Ma di questi aspetti, che rappresentano le vere difficoltà dell’industria italiana, nessuno parla. Ci si limita, e ci si compiace, a dire che piccolo non è più bello invece che sottolineare come l’Italia non sia più un paese in cui si possa fare industria. Sarebbe come dire ad un ammalato che deve guarire per poter tornare a correre e non dargli neanche una medicina adatta a farlo uscire dal letto.
Mi domando se davvero si conosca la differenza tra una piccola, una media e una grande impresa. Si è grandi per il numero di occupati o per il fatturato o per la capacità di essere presenti in mercati importanti? Ogni qual volta salta fuori il discorso delle dimensioni mi vien voglia di chiedere ad accademici e pseudo economisti se una piccola impresa deve diventare grande per competere o diventa grande perché sa competere sui mercati internazionali
Il governo sembra pronto a varare un nuovo decreto sulla competitività al quale ha molto lavorato uno dei principali consiglieri del premier Renzi, Tommaso Nannicini. Tra le misure previste alcune dovrebbero incentivare l’investimento nel capitale di Pmi da parte degli investitori qualificati, anche stranieri, che accedano ai mercati alternativi italiani, come il mercato Aim gestito da Borsa Italiana, e da parte dei risparmiatori retail che acquistano i titoli sul mercato secondario in fase di successivo collocamento al pubblico. Stiamo sulla strada giusta? Cosa c’è da fare per attrarre ulteriormente gli investitori stranieri?
Bisogna aprire una piccola parentesi. Burocrazia, infrastrutture, digitalizzazione, giustizia: non solo le politiche fiscali, sono molte le facce della mancanza di attrattività di capitali esteri nel nostro paese. Per fare un esempio, dati alla mano, secondo la Banca Mondiale ogni anno un imprenditore perde 36 giorni appresso alla burocrazia, tra l’altro nell’Ue dei 28 classificata al diciassettesimo posto per inefficienza. Per non parlare della giustizia, dei suoi tempi biblici e della farraginosità delle normative. La nostra vera competitività? Il capitale umano, l’ esperienza degli operatori del manifatturiero e quella della denominazione, Made in Italy, conosciuta in tutto il mondo ma non tutelata a dovere. La stessa Ue non ha ancora varato l’obbligo dell’etichetta Made In. Circa le agevolazioni a chi investe in bond delle piccole imprese ben venga. Bisognerebbe poi veramente agevolare con vere detassazioni gli investimenti di privati e di aziende nelle nostre imprese che ricordiamolo sono di matrice quasi esclusivamente famigliare. Rimanendo sul tema della partecipazione di capitali stranieri questo può voler dire cercare di uscire dalla logica “banca dipendente” che caratterizza il credito in Italia. Un investitore non bancario che voglia fare credito alle imprese italiane potrà farlo in piena certezza del diritto, acquistando crediti già presenti nel portafoglio delle banche o facendosene creare di nuovi dalle stesse banche per comprarli a sua volta. Si tratta per lo più di distribuire il rischio di credito su una di platea di investitori più ampia, favorendo allo stesso tempo la creazione di un mercato secondario. Non solo, un aspetto positivo potrebbe essere quello di approdare sul mercato estero dell’investitore di riferimento eliminando, o meglio arginando, una delle barriere all’internazionalizzazione.
Le banche oggi non sanno più fare credito, non sanno più capire chi ha un progetto valido, non sanno riconoscere un’azienda sana. Le nostre aziende vengono esaminate con parametri di controllo per il rating di Basilea3. Non possiamo avere finanziamenti, può averli solo chi non ne ha bisogno. Ma questa norma ci traina verso il nulla
La sua associazione, in audizione al Senato, ha criticato alcuni aspetti del decreto legge sulle banche chiedendo al parlamento di scongiurare bulimiche attenzioni da parte del mondo bancario e della finanza per il pegno non possessorio sui beni mobili in particolare sui macchinari per l’industria. Ancora una volta sembra che il vero anello debole della nostra economia sia il sistema bancario che vive un momento di scarsa fiducia, soprattutto da parte del mondo imprenditoriale. Eppure l’Italia resta legata ad una logica bancocentrica, c’è bisogno di ripristinare un circuito vizioso tra le banche e le aziende? In che modo?
La parola chiave è finanza. Le banche oggi non sanno più fare credito, non sanno più capire chi ha un progetto valido, non sanno riconoscere un’azienda sana. Le nostre aziende vengono esaminate con parametri di controllo per il rating di Basilea3. Non possiamo avere finanziamenti, può averli solo chi non ne ha bisogno. Ma questa norma ci traina verso il nulla. Non dimentichiamoci che la politica europea è stata fatta dalla grande finanza e dalle grandi industrie del nord Europa. Oggi in banca la storia industriale, i risultati ottenuti, i piani d’investimento, il marchio, il rapporto con il territorio nel quale vive l’azienda, non contano nulla di fronte all’algoritmo di Basilea3. Confimi Industria fa presente invece che devono emergere questi elementi qualitativi rispetto a quelli quantitativi di Basilea. Siamo al cospetto di troppi provvedimenti a protezione dei bilanci delle banche che stridono enormemente di fronte alla moria di imprese – 650 mila dal 2008 – e all’assenza di una volontà vera di far ripartire il paese.