Così Adorno inventò il falso mito della personalità fascista

Negli anni '50 il filosofo Theodor W. Adorno inventa la “California F-scale”, un test per misurare la personalità autoritaria (dove la "f" sta per fascista). Ma con la società dei consumi il benessere ha spazzato via la morale autoritaria

Quand’è che l’uomo di destra diventò un tipo psicologico? Una maschera quasi da commedia dell’arte? Un impresentabile autoritario e autoritarista? Un individuo succube del potere perché in esso proiettava i suoi patetici sogni di grandezza piccolo borghese e al tempo stesso soddisfava il suo meschino bisogno di ordine e di sottomissione? Un ircocervo con la testa (e i capelli) di Donald Trump e il corpo di Josef Goebbels? Insomma, un patetico “fascista”?

Ovviamente semplifico; quando si tratta di definire uno stereotipo non ci si cura delle sottili distinzioni del pensiero politico, non si fa caso al fatto che in questo calderone “fascista” finiscono per convivere il liberismo economico spinto dei conservatori anglo-americani – che furono antifascisti nella guerra mondiale – e il dirigismo statalista della destra nazionalista e sociale europea, che fu pienamente fascista nello stesso periodo.

Fatto sta che Theodor W. Adorno, quando pubblicò nel 1950 il suo classico The authoritarian personality, infilò questi due ingredienti apparentemente incompatibili nella stessa pentola e cucinò il piatto agro-dolce del piccolo-borghese autoritario e segretamente eterno fascista, il soddisfatto conservatore degli anni ’50 nascosto dietro le sue libertà economiche solo formali ma in realtà oppressive, tanto è vero che costui non intendeva aggiungere alla libertà economica le libertà sociali. Dopo aver sconfitto Hitler, costui non aveva alcuna intenzione di combattere per la fine delle convenzioni sociali, delle disparità di genere, del potere patriarcale, dei pregiudizi sociali di età, genere, razza, religione e classe sociale.

In questo calderone “fascista” finiscono per convivere il liberismo economico spinto dei conservatori anglo-americani – che furono antifascisti nella guerra mondiale – e il dirigismo statalista della destra nazionalista e sociale europea, che fu pienamente fascista nello stesso periodo. Theodor W. Adorno, quando pubblicò nel 1950 il suo classico The authoritarian personality, infilò questi due ingredienti apparentemente incompatibili nella stessa pentola e cucinò il piatto agro-dolce del piccolo-borghese autoritario e segretamente eterno fascista

Qualche anno prima, nel 1947, Adorno aveva concepito un questionario, la “California F-scale”, un test per misurare la personalità autoritaria. E quella “F” per cosa sta? Ebbene si, la “F” sta per “fascista”. La scala F-scala scompone la personalità autoritaria in propensione alle convenzioni, aggressività autoritaria e contrarietà all’introspezione. A quel punto la frittata era fatta, e la maschera applicata sul viso del conservatore inestirpabile. Invano tentò di reagire Russel Kirk nel 1953 quando pubblicò The Conservative Mind: from Burke to Eliot. Appellarsi a Edmund Burke era ormai inutile e l’uomo di destra era destinato a diventare inesorabilmente un patetico bigotto, un ridicolo e osceno cripto-fascista. In breve, uno sfigato, un marginale.

Gli anni ’50 – fatti di libertà economica unita a convenzionalità sociale – furono un contraddittorio interludio conservatore che non poteva durare a lungo. E che non potesse durare fu segnalato proprio dal libro di Adorno, pubblicato proprio all’inizio di quel decennio. Tutto finì con la rivoluzione sociale degli anni ’60, con la musica rock, i movimenti giovanili, il femminismo, la liberazione sessuale, e così via. A quel punto il padre di famiglia americano (che magari aveva partecipato allo sbarco in Normandia) si vide spodestato dal suo trono e si ritrovò – in quel libro di Adorno che mai si sarebbe sognato di leggere – a essere un fascista. Il suo desiderio di ordine e decoro diventò segno di una personalità oppressiva e autoritaria, la sua etica del lavoro una cieca e acritica adesione a ruoli sociali imposti dal potere, il suo vago liberalismo politico ed economico una vuota forma che nascondeva l’oppressione subdola verso la donna e i lavoratori manuali socialmente inferiori. Per non parlare della segregazione razziale.

E per la verità il borghese americano degli anni ’50 fu autoritario, o quanto meno propenso al controllo sociale nella forma del maccartismo. Furono però soprattutto gli anni ’60 che fecero esplodere le contraddizioni: ad esempio con Wallace, il governatore segregazionista dell’Alabama. George Corley Wallace rappresentava quella media e piccola borghesia bianca che dopo aver vissuto i vantaggi della prosperità ora si sentiva minacciata dai neri, dai giovani e dalle donne. Però è da sottolineare che Wallace fosse del partito democratico, e quindi fautore del nuovo stato sociale costruito dal presidente Johnson, la Big Society. Ebbene si, si può essere a favore delle cure mediche per tutti – compresi i neri – pagate dallo stato e al tempo stesso per i bagni e i posti separati sull’autobus per i neri. L’uomo è contradittorio e contiene moltitudini.

George Corley Wallace rappresentava quella media e piccola borghesia bianca che dopo aver vissuto i vantaggi della prosperità ora si sentiva minacciata dai neri, dai giovani e dalle donne. Però è da sottolineare che Wallace fosse del partito democratico, e quindi fautore del nuovo stato sociale costruito dal presidente Johnson, la Big Society. Ebbene si, si può essere a favore delle cure mediche per tutti – compresi i neri – pagate dallo stato e al tempo stesso per i bagni e i posti separati sull’autobus per i neri

Sull’altro fronte, era il buon tempo andato di quando furono pubblicate alcune analisi psicologiche sull’uomo progressista liberato dalle pastoie oscurantiste del passato. Lo psicologo Flacks (1967) riteneva che la società del benessere avesse finalmente creato l’uomo nuovo, non impaurito dai tabù sessuali, dall’oppressione gerarchica e dai doveri sociali e familiari. Si passava dalla società repressiva – non solo tradizionale, ma anche capitalista – alla società veramente umana. In particolare, gli studenti universitari cresciuti in un ambiente benestante, libero dal bisogno, intellettualmente stimolante e non repressivo rappresentavano i primi esemplari dell’individuo liberato, naturalmente altruista e umanista, privo sia dei pregiudizi tradizionali che dell’avidità egoistica del capitalismo. Si tratteggiava un paradiso post-industriale e post-materialistico. Alcuni, addirittura, parlarono di una nuova forma psichica superiore che emergeva nella storia per la prima volta, lo stadio di Coscienza III, una perfetta sintesi tra autonomia individuale e adesione alla comunità. Un superuomo, però senza capelli biondi e senza tratti bestiali. Un superuomo perbene.

Da quel movimento scaturì un nichilismo gentile, un nice nihilism che non genera un ritorno alla legge della giungla, ma un impegno morale fondato sulla constatazione che l’uomo è dotato di bisogni morali. Il nice nihilism, come lo chiamano i filosofi Tomler Sommers e Alex Rosenberg (2003) sostiene che possiamo stare tranquilli, la genetica non ci condanna a essere belve. Semmai ci costringe al destino di animali: un po’ belve e un po’ sociali. Un po’ lupi, un po’ francescani. La scelta morale è dunque un imprevisto vantaggio evolutivo. Però, questo stesso senso evolutivo la svuota di contenuto morale. La moralità non può ammettere eccezioni o relatività. Un comportamento evolutivo invece si. Oggi può essere conveniente obbedire a una norma morale, domani chissà.

Di fronte a questa morale debole e pieghevole, il nichilismo perbene non può che fare finta di nulla. Non può sottolineare troppo l’amoralismo evolutivo, e nemmeno rinnegarlo. Insomma, l’autonomia morale comporta il rischio di un’etica soggettiva e personalizzabile, il che fa a pugni con il concetto stesso di moralità. Al tempo stesso però la moralità oggettiva puzza di legge esterna, e quindi di autoritarismo. E così torniamo ad Adorno, alla personalità autoritaria, al California F-scale e alla parola che inizia per “f”. Intorno a questo cerchio balla il pugile della moralità moderna, darwiniana e sottomessa alle leggi amorali della genetica. Pugile ora alleato, ora traditore. Un bell’affare.

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