Imprenditore, produttore televisivo, latin lover e venditore nato. Donald Trump, l’ultimo vero americano. E anche l’ultima vera speranza – a sentirlo – “perché gli Stati Uniti possano tornare a essere un grande Paese”. Tutti parlano di lui come se fosse un semi-dio: che ha detto, fatto e visto di tutto. Nipote di un immigrato tedesco (il cognome, in principio, era Drumpf) e figlio di uno degli immobiliaristi più importanti di New York, “The Donald” è entrato nella casa degli americani dalla porta d’ingresso, cioè la televisione, producendo The Apprentice, uno degli show più seguiti degli ultimi anni (la versione italiana, qui da noi, è stata condotta da Flavio Briatore), e da allora non se n’è più andato.
Sky TG24 – la sua redazione Esteri – produce un mini-documentario che analizza il fenomeno Trump, elencandone pro e contro (che sia un bravo negoziatore è fuori ogni dubbio; meno che sia una macchina per far soldi). Il suo nome è come i suoi capelli: un marchio di fabbrica. Ossessivo-compulsivo, per lui “le strette di mano sono una tortura”. I media americani hanno fatto a gara nel paragonarlo al nostro Berlusconi; per Trump, Silvio “è una brava persona”. E dall’ascesa all’alta finanza (il nonno investì a Wall Street più o meno sulla soglia della crisi del ’29) fino alla politica di Washington il passo è stato relativamente breve.
Forse tutto è partito con il discorso alla Cena dei Corrispondenti della Casa Bianca di Barack Obama del 2011, quando Trump è stato preso in giro in pubblica – pubblicissima, anzi – piazza. “Ora”, disse Obama, “mr. Trump potrà tornare ad occuparsi di cose serie, come il complotto sull’allunaggio”. Sfida accettata, caro Barack. Nel giro di relativamente poco, Trump ha cercato e ottenuto il consenso dei repubblicani. Controverso, chiacchierone e inconsistente. La carriera politica può essere un’ottima via di fuga per le tante cause che lo vedono coinvolto (e di cui difficilmente parla).
Il suo nome è come i suoi capelli: un marchio di fabbrica. Ossessivo-compulsivo, per lui “le strette di mano sono una tortura”. I media americani hanno fatto a gara nel paragonarlo al nostro Berlusconi
Il documentario traccia il profilo dell’uomo (prima), dell’imprenditore (dopo) e del comunicatore, più che del politico (alla fine). Di lui parlano, in ordine più o meno sparso, il proprietario del ristorante italiano Le Cirque, Marco Maccioni; la sommelier Alessandra Rotondi; il giornalista Alexander Stille, l’economista Luigi Zingales (che quando gli chiedono di valutare il patrimonio di Trump, risponde: non ho fatto la conta, però ho letto che) e il suo biografo, Michael D’Antonio: “Donald Trump crede molto nella genetica”. E poi, immancabile, Flavio Briatore: uno che Trump lo conosce di persona, e che lo descrive – tirando al massimo le somme – come “maniacale”. Agli americani piace il bad boy che smaschera l’ipocrisia dilagante della società: “il problema degli Stati Uniti”, ha detto Trump, “è voler essere politicamente corretti”.
Cosa che lui non sa nemmeno cosa sia. Insulta, sfotte, insulta ancora. Non va per il sottile. Filo-razzista e filo-xenofobo, convinto sostenitore del nazionalismo americano (sua l’idea di tenere fuori dagli Stati Uniti i musulmani, e di far costruire un muro sul confine messicano finanziato dai messicani; in camera da letto tiene un libro con i discorsi di Hitler e su twitter non esita a citare Mussolini). Ma è un tipo buono, sembra di capire; uno, tutto sommato, onesto. Che le persone le vuole conoscere, e che al gestire gli affari preferisce stringere gli accordi – non si ferma mai; sempre pronto al prossimo obiettivo. Immaginatevelo alla guida degli Stati Uniti.Il documentario è un concentrato di immagini e di dichiarazioni, di testimonianze (con il contagocce, solo dove servono ai fini del racconto) e di musica: il rock’n’roll dei mitici anni ’70, nemmeno fosse il reboot di Vinyl. Sullo sfondo, bellissima e piena di grattacieli, l’isola di Manhattan, poi i quartieri del Queens e di Brooklyn, e ovviamente New York, tutta intera, la città di cui Trump fa parte (letteralmente viste quante proprietà ha) e di cui è diventato ambasciatore (nel mondo, certo; ma soprattutto nei film e nelle serie tv).
Hollywood lo ama, la gente lo ama: è il sogno americano che prende forma, Donald. L’ultimo vero americano. Alla fine, come nella peggiore delle allucinazioni del protagonista di Fight Club, il documentario di Sky si chiude con “Where is my mind” dei Pixies. Brividi di freddo su tutto il corpo. “Donald Trump, The Apprentice President” – si intitola così – va visto per questo: per avere finalmente un’idea di chi sia l’uomo che rischia di diventare il prossimo Presidente degli Stati Uniti.