Recentemente mi sono guardata allo specchio, in camera mia, con gli occhiali da vista e ho iniziato a crucciarmi per la prova costume. Avendo raggiunto la veneranda età di 30 anni, ho anche accarezzato la seducente idea di comprare un costume intero per questa stagione, in perfetto negazionismo estetico, pura omertà fisica: se nascondo la pancia, forse essa non c’è più (la stessa legge per la quale ci convinciamo che i collant coprano i peli o che il fondotinta nasconda i baffi).
Nel frattempo, però, mentre vivevo il mio personalissimo psicodramma da prova costume, è successo che online Emma Marrone abbia pubblicato una sua foto da gnoccolona in bikini, attribuendosi una pancia e dei cuscinetti che oggettivamente in foto non si vedono (ma se tu, Emma, sostieni di averceli, io ti credo, sappilo). Naturalmente in molti l’hanno massacrata e in tanti si sono espressi sul tema, dalla Selvaggia Nazionale a Mattarella, passando per Bergoglio. Che non va bene, che non è giusto, che ci sono quelle che la ciccia ce l’hanno davvero e si sentono prese per il culo, se tu sei figa ma neghi la tua fighezza. Sorry. Non si fa. Impara la lezione e portala a casa, Emma.
Dopo poco, ma davvero pochissimo, diventa virale un’altra immagine, di Clio MakeUp, che felice, in spiaggia, senza pose da calendario Max, in veste di normale ragazza in vacanza, scevra da belenismi vari, inneggia all’accettazione del proprio corpo. E tutti a idolatrare Clio perché mostra senza vergogna le pingui cosce e la generale morbidezza delle sue forme.
Allora, io, che il cosiddetto body-shaming l’ho vissuto (pesavo 20kg di più) e lo vivo tutt’ora (perché comunque non è che adesso io sia esattamente Taylor Swift), ho una sensazione di leggero fastidio sia per l’una che per l’altra reazione. Come dire: possiamo vedere una foto e registrare solo “donna al mare” (eventualmente felice, eventualmente rilassata) senza dover necessariamente puntualizzare (sia chi pubblica, sia chi commenta) “donna grassa/finta-grassa/magra/troppo-magra/ballerina-di-pole-dance al mare?”.
Sappiamo che lo stesso identico corpo, dello stesso peso, collocato in aree geografiche, latitudini ed epoche diverse, verrebbe percepito diversamente
Il fatto è che siamo culturalmente abituate a rivestire di ossessione la nostra carne, in questa macelleria che è anche un po’ circo, nella quale il numero più in voga è il confronto costante, il commento spietato, l’attenzione morbosa verso gli altrui difetti messi a paragone con i propri.
E sì, in questo ordine di pensiero, è imperdonabile pubblicare una foto da figa e attribuirsi del grasso che non si vede. E non importa che Emma l’abbia fatto per mettere un po’ le mani avanti, perché magari lei, rispetto agli standard dello showbiz, è meno magra, non ha quell’aria anoressica da fashion-blogger-con-trancio-di-pizza-in-mano-così-vi-faccio-credere-che-mangio-tantissimi-carboidrati; poco importa che il grasso — o meglio, la sua percezione — sia un fatto anche culturale, contestuale, e che probabilmente la Marrone si sia sentita – immagino – innumerevoli volte considerata dagli stylist una vacca perché non era una taglia 38.
Del resto, ormai sappiamo che lo stesso identico corpo, dello stesso peso, collocato in aree geografiche, latitudini ed epoche diverse, verrebbe percepito diversamente (e non ci riferiamo solo al fatto che oggigiorno pure Marilyn Monroe si farebbe le paturnie per la prova bikini, ma anche al fatto che pesare 75kg a Palermo non è come pesare 75kg a Milano, o che essere una taglia 46 se fai la postina non è come esserlo se sei una donna dello spettacolo).Io, che il cosiddetto body-shaming l’ho vissuto, mi chiedo quale sia il giusto equilibrio tra “accettati come sei” e “impegnati per migliorarti” ma, soprattutto, mi chiedo se riusciremo mai a cambiare la “cultura del corpo” e tutto ciò che attorno ad essa gravita
Ora, non è mia intenzione giustificare la magra che si definisce grassa, che è una di quelle cose che alle grasse vere fa venire il chitemmorto (un po’ come quelle che a scuola dicevano di non aver studiato e poi prendevano 9), ma vorrei anche ricordarvi che voi che massacrate la Marrone e idolatrate Clio, siete probabilmente le stesse che cliccano su tutte quelle immonde photo-gallery dalle quali si apprende che anche Scarlett Johansson ha la buccia d’arancia, e anche Laetitia Casta ha l’internocoscia commosso, e anche Beyoncé ha il culone. Siete probabilmente le stesse che contano i buchi di cellulite sulle chiappe delle vostre amiche e la quantità di smagliature sulle loro cosce. E allora, donne, il punto qual è?
Io, che il cosiddetto body-shaming l’ho vissuto, mi chiedo quale sia il giusto equilibrio tra “accettati come sei” e “impegnati per migliorarti” ma, soprattutto, mi chiedo se riusciremo mai a cambiare la “cultura del corpo” e tutto ciò che attorno ad essa gravita.
Mi chiedo se riusciremo mai a capire che il corpo non è (solo) un trofeo da esibire, o un difetto da occultare, ma un’altra cosa. Che il nostro corpo ci appartiene, che prendercene cura e migliorarlo è un dovere che abbiamo in termini di salute (per questo bisogna mangiare bene o fare sport, per salute, non per la prova costume).
Che i corpi sono diversi tra loro e non sono perfetti. Che essi invecchiano e ciò è naturale, e anche se iniziamo a strafarci di botox, a fare decoupage della nostra pelle, a impiantare protesi nelle zinne e nelle chiappe, a gonfiarci le labbra finché non riusciamo nemmeno a sorridere, il tutto per approssimarci di più al vituperato stereotipo tette-grosse-vita-sottile-culo-a-mandolino-labbra-da-pompinara, il risultato non è la bellezza (obiettivo peraltro molto sopravvalutato). E l’ipocrisia che usiamo sulla vicenda del grasso è la stessa che usiamo sull’invecchiamento, per cui contiamo le rughe che ha una donna dello spettacolo (come fossero i reati della sua fedina penale) ma, d’altra parte, ci indigniamo quando la chirurgia la sfigura e la rende irriconoscibile (se ci pensate è un altro nostro grande feticcio guardare le foto del prima e del dopo).
Se iniziamo a gonfiarci le labbra finché non riusciamo nemmeno a sorridere, il tutto per approssimarci di più al vituperato stereotipo tette-grosse-vita-sottile-culo-a-mandolino-labbra-da-pompinara, il risultato non è la bellezza
Mi chiedo se riusciremo mai a capire che ovunque andremo ci saranno corpi più belli e corpi più brutti, più giovani e più vecchi, e che un corpo è solo un corpo. E che l’esercizio più importante da fare, più degli squat e più dei crunch, è imparare a starci bene, in quel corpo lì; che ad essere bello non è né il troppo grasso, né il troppo magro (che spesso sono situazioni non sane; e né Emma appariva troppo magra, né Clio troppo grassa); che essere a proprio agio nel proprio corpo è l’obiettivo più importante (e ci sono donne bellissime che non riescono comunque a essere a proprio agio nel proprio corpo). Che quello ci rende femminili, che quello ci fa trasmettere comfort, che quello ci rende fisicamente accoglienti e appetibili, se appetibili vogliamo essere.
Ecco cosa significa cambiare la cultura del corpo: non incentrarla sul body-shaming, ma sul body-caring. Non la vergogna, ma la cura. Quello è un sentimento positivo: la cura ispira, la vergogna deprime e reprime, incarognisce, ci fa puntare il dito, ci fa giudicare e ci fa essere giudicate. Personalmente ho smesso di vergognarmi del mio corpo (o meglio: me ne vergogno molto meno), quando del mio corpo ho iniziato a prendermi cura. Nella consapevolezza, lo ribadisco, che un corpo è un corpo. E noi donne siamo molto più che corpi. E se non ce lo ricordiamo noi per prime, finiamo con l’essere vittime e pure complici della logica (e dell’industria) del body-shaming che fa leva su un antico e subdolo tranello femminile: essere noi le peggiori giudici di noi stesse.