’O pernacchioVedi Napoli in televisione e non la puoi capire

Dal cardinale Voiello di Paolo Sorrentino ai protagonisti di Gomorra, da La Squadra a Un Posto al Sole. I napoletani del piccolo schermo non sono tutti uguali, ma sono maschere. Se volete conoscere la Napoli vera spegnete la tv e prendete un treno

Cinquanta sfumature di napoletanità più una. Viene quasi naturale pensarci dopo aver visto The Young Pope di Paolo Sorrentino: chi sono, oggi, i napoletani in televisione? Nella serie tv di Sky, trionfo d’estetica e di scrittura, spicca il personaggio interpretato da Silvio Orlando, il cardinale Voiello: piccolo e tozzo, capelli radi e pettinati all’indietro, occhiali dalla montatura grande e dorata, un neo sulla faccia, e un accento napoletano onnipresente, anche – e forse soprattutto – quando parla in inglese. E poi c’è Higuain e il Napoli calcio, l’unica vera fede di Sorrentino (“non puoi tifare contro l’uomo che ti ha salvato la vita”, ha detto in un’intervista sul Corriere della Sera ad Aldo Cazzullo. E quell’uomo, per la cronaca, era Maradona).

L’essere napoletano di Voiello non si ferma alla battuta facile o al continuo rimestare sul calcio e il tridente d’attacco della squadra del cuore; per qualcuno, Voiello è napoletano soprattutto per il suo modo di condurre gli affari e di gestire la “cosa della Chiesa”, per il suo politicare oltre misura, sempre eccessivo, fintamente simpatico, quasi macchiettistico. E forse anche per il suo approccio semplice – talvolta addirittura semplicistico – all’amministrazione del Vaticano. Un naive d’altri tempi, fintamente buono e invece svelto, furbo, mente aguzza e parola pronta. A Napoli si dice: “cazzimmoso”. “Che cos’è la cazzimma?”, chiede Alessandro Siani in una sua celebre battuta. “Nun t’o voglio ricer, chest’è è a cazzima!” Non te lo voglio dire, è questa la cazzimma.

Sorrentino dalla sua ha l’esserci nato, a Napoli. E quindi – così come ha sempre fatto con i suoi personaggi, per ultimo il Gambardella interpretato da Toni Servillo, per primo il Pagoda di Hanno tutti ragione, il suo romanzo per Feltrinelli – parte avvantaggiato. Ha già una sua idea, da cui attingere. E Napoli, per lui, diventa un po’ la Napoli ridente, dinamica, a modo suo oscura. (“Non riesco a raccontare”, mi ha confessato, “solo il bene o solo il male”). Voiello è un crocevia di sensazioni e di idee, non solo napoletanista ma anche vaticanista. “La più grande cantante italiana?”, chiede a Jude Law. Non quella napoletana. Ma l’italiana. Perché è parte del tutto, Voiello.

Il cardinale Voiello interpretato da Silvio Orlando in The Young Pope è il napoletano cazzimmoso: fintamente buono e invece svelto, furbo, mente aguzza e parola pronta

Chi sono i napoletani in tv. Facciamo un passo indietro. Abbandoniamo per un momento Voiello e il papa di Sorrentino, e passiamo a Gomorra, l’altra serie tv di Sky: successo planetario, ritratto a cielo aperto della Napoli più cattiva e contaminata (la verità? Si parla di tutto il “sistema” Italia, non solo di Napoli). Chi sono, lì, i napoletani? Sono gentaglia che vive alla giornata, con una loro filosofia di non-vita: che uccidono, trafficano, guadagnano; e di quel potere, di quei soldi, non si godono niente. Perché sono sempre di corsa, sempre di fretta. Sempre sul chi (soprav)vive. È il gioco del Trono versione “Vesuvio”. I personaggi – Ciro, Genny, don Pietro – sono personaggi non solo napoletani, ma – come in tanti hanno sottolineato – shakespeariani, con una loro dignità e una loro forza narrativa. Il cattivo più cattivo. Il cattivo quasi buono. Il buono che diventa cattivo. Sullo sfondo, bellissima e insozzata, c’è Napoli. Riconosci Scampia, riconosci le Vele; il napoletano perde la sua musicalità di lingua – perché è una lingua, non solo un dialetto – e diventa una minaccia soffiata, il verso di un serpente incazzato a morte, chiuso in un barattolo di latta vecchia e arrugginita.

Ma Gomorra è una serie tv, sottocategoria della “fiction”: non c’è alcuno scopo educativo; è intrattenimento; è critica – forse nemmeno voluta – sociale. Serve a riflettere, non a imparare. Serve per capire, non per sentenziare. E quindi Napoli come “medium”, e i napoletani come traghettatori. Il fiume non è lo Stige, ma è quello del luogo comune, del qualunquismo: chi sono i cattivi, oggi? Noi, voi, i napoletani, ma anche il resto degli italiani.

Proviamo a guardare, allora, l’altra faccia della medaglia. Passiamo alla televisione pubblica, alla Rai. E ai cosiddetti “buoni”. La Squadra. Fiction di successo. I protagonisti sono poliziotti. Ogni giorno devono combattere il crimine, e spesso lo fanno usando la loro napoletanità come arma. Come scudo. Ci sono le situazioni comiche, quelle più tragiche. E i criminali diventano “delinquentelli”, “guaglioni ‘e strada”, gente comune, gente che s’arrangia. Ma pure camorristi, per carità. Eccola, l’altra Napoli. Che non è mai né totalmente buona né totalmente negativa. Ma che vive, pulsa, cambia. Un serpente che – uscito dal barattolo in cui era stato costretto per gioco – se la morderebbe pure, la coda. Per fame, soprattutto. Ma che non ce la fa. Umani troppo umani, direbbe il poeta.

Ne La Squadra (da segnalare: Sorrentino per un po’ fece da sceneggiatore), si snoda una città più viva e più colorata, quasi opposta rispetto a quella di Gomorra. E se i personaggi non sono shakespeariani (siamo sempre sulla Rai, e sempre negli anni ’90: ricordiamocelo), sono ugualmente complessi e credibili. Ah, quando la fiction viene fatta bene.

Dentro Un Posto al Sole, nonostante le limitazioni di un target anziano, c’è di tutto, si parla di tutto

Il quadro completo sulla Napoli televisiva, però, lo presenta un altro “prodotto”. È Un Posto al Sole, che solo qualche settimana fa – il 21 ottobre, volendo essere precisi – compiva venti anni di messa in onda. È una soap, non una fiction. Va in onda la sera, all’ora – più o meno – di cena. Ma dentro, nonostante le limitazioni date dal target del pubblico (anziano, molto anziano; la famiglia e pochi, veri ragazzi), c’è di tutto: si parla di tutto. Tornano la Napoli e i napoletani come metafora, come mezzo per raggiungere la platea più ampia – Un Posto al Sole va in onda in tutta Italia – e intrattenere, e raccontare e provare a dare un messaggio. La sceneggiatura, spesso, si perde in sé stessa; situazioni impossibili vengono risolte facilmente; i personaggi sono, qualche volta, caricaturali (è una soap, tenetelo sempre a mente). Ma l’identità di Napoli resta forte. Nelle panoramiche dall’alto, mozzafiato. Ma pure nei dialoghi e nella parlata, spesso sporca, dei protagonisti.

Ne sono un esempio Raffaele, il personaggio interpretato da Patrizio Rispo, e Renato, faccia e voce di Marzio Honorato: sono loro che incarnano un po’ di quella napoletanità che s’è sempre vista sul grande e sul piccolo schermo, che scimmiottano, talvolta riuscendo, talvolta no, grandi come Totò e i De Filippo (e Honorato, va detto, era nella compagnia di Eduardo).

Si aggiunge un altro tassello, dunque. Napoli macchietta, Napoli simpatica, Napoli furbona. E Napoli tradizionalista. Alla fine, appare chiara una cosa: la napoletanità diventa un valore non assoluto, ma interessante e utile ai fini della narrazione. Non ce n’è una sola, nel piccolo schermo. Può essere sinonimo di irascibilità, di cattiveria, di schiettezza e anche di onestà, oppure di bontà viscerale, di ingenuità, di sentimenti antichi e terreni, “di pancia” come si dice. È tutto rimesso allo scrittore, e al regista. E anche all’attore. Napoli è, in tv, “una maschera”. I napoletani, come ruoli, sono teatranti. E hanno questo obiettivo qui, supremo nella serialità: intrattenere. Se volete conoscere la Napoli vera, spegnete la tv e prendete un treno.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter