Durante l’esecuzione dell’inno nazionale prima di Italia-Austria, intorno alle ore 21 del 9 giugno 1990, il ventiseienne avellinese Nando De Napoli – che ha appena vinto il suo secondo scudetto in carriera e vanta già 357 minuti da titolare in un mondiale – si trova tra Vialli e Carnevale, il terzo a partire da Zenga. Si sente un veterano, forse intuisce la presenza della telecamera, fatto sta che non ha alcuna paura di scandire con vigore in mondovisione quello scampolo di inno che gli concede l’inquadratura: “…s’è cinta la testa”. Sembra che stia urlando. Bisogna anche dire che gli unici ad aprire la bocca durante l’inno sono Zenga (forte, sicuro di sé), Vialli (circospetto, timido, forse stonato), Nando, appunto, e Carnevale, ma evidentemente a bassa voce, farfugliando. Dal disinteresse inanimato di Riccardo Ferri, fino al mutismo così profondamente umano di capitan Bergomi, al terzo mundial, nessuno ostenta alcuna reazione. Una breve pausa, durante l’intermezzo della marcetta: l’inquadratura spazia sulle tribune dell’Olimpico, ruotando su sé stessa, poi torna a concentrarsi sulla squadra di Vicini e, quando riprende il testo di Mameli, la sensazione è che nulla sia cambiato rispetto a qualche secondo prima. Le bocche sono ancora cucite. In realtà, a guardar meglio, anche Carnevale si è zittito del tutto. Ma Nando De Napoli non delude, continua a cantare, lo ha fatto per tutto il tempo in cui non è stato inquadrato.
A un secondo passaggio della telecamera, però, si apprezza meglio un dettaglio. Forse per l’emozione che spesso disorienta il tifoso, infatti, nella prima inquadratura non si era osservata con precisione – tutt’al più se n’è avuta una leggera percezione – la posizione delle mani di De Napoli. In un impeto di amicizia e intimità, ecco nitidamente la destra di Nando intrecciata con forza a quella delicata di Gianluca Vialli, che accetta sornione di sostenerlo nel canto. Il tutto mentre Zenga, perso nella sua ispirata e corsara solitudine, incurante di tutto ciò che accade al suo fianco e forse in generale intorno a sé, accompagna l’inno alla conclusione, il nostro numero uno, che quattro anni prima in Messico era l’ultima delle riserve, oscurato da Galli e Tancredi. Zenga, Vialli e Nando De Napoli erano i giovani che Bearzot aveva portato in Messico. Dei tre, solo Nando era il titolare. Lui che ha esordito con la maglia azzurra il giorno in cui Paolo Rossi l’ha vestita per l’ultima volta. Solo Nando può dire di essere veramente affondato, insieme alle ombre logore e pesanti dei Collovati e Tardelli a fine carriera, sotto i colpi di Platini e Stopyra, davanti ai 70mila spettatori di un altro Olimpico, quello di Mexico City, il 17 giugno 1986. Sul liberatorio “L’Italia chiamò”, la stretta tra Vialli e De Napoli si allenta all’improvviso, le mani si districano e, levate al cielo, salutano 74mila spettatori, tra i quali Giulio Andreotti, Antonio Matarrese e João Havelange. Ed ecco la cronaca: i primi dieci minuti di Nando De Napoli, a Italia ’90.
In un impeto di amicizia e intimità, ecco nitidamente la destra di Nando intrecciata con forza a quella delicata di Gianluca Vialli, che accetta sornione di sostenerlo nel canto.
Minuto zero
Dopo 26 secondi Nando è il primo degli azzurri ad effettuare uno scatto: il numero 18 Streiter, lanciato da Aigner, coglie alla sprovvista la difesa italiana nel corridoio destro che doveva essere presidiato da Giuseppe Bergomi. Una marcatura saltata, grazie anche al movimento senza palla dell’austriaco Toni Polster, ed ecco che De Napoli si ritrova ad infilarsi nella traiettoria tra il preciso lancio di Aigner e la corsa di Streiter. Arriva per primo e subisce la spinta vistosa dell’avversario, lasciandosi cadere sul pallone. Un distinto arbitro brasiliano premia il suo vigore atletico, concedendogli il fallo. La folla saluta l’impeto di Nando con un’ovazione. Pochi secondi dopo riconquista la mediana con una falcata tranquilla, mentre i suoi compagni Carnevale e Vialli provano a duettare con colpi di tacco nella tre-quarti avversaria. La loro velleitaria iniziativa è presto intercettata, ma l’Italia mantiene il possesso di palla e può ripartire dalla retroguardia. Franco Baresi concede a Nando l’onore di impostare la manovra offensiva. De Napoli, libero sul cerchio di centrocampo, decide di coinvolgere l’ala Donadoni, con un pacifico piatto destro, mentre partono gli “olè” del pubblico romano. De Napoli lo serve ma non lo segue, non prova nemmeno a proporsi per un ulteriore appoggio. Preferisce indietreggiare, temendo che il compagno, uno dei pochi in campo con licenza di inventare, tenti un dribbling e perda rovinosamente la palla. In effetti, Donadoni compie alcuni passetti e prova a sgusciare tra due avversari, ma dopo un accenno di accelerazione è sgambettato da Andy Herzog, in generoso ripiegamento, e precipita a terra, subendo ancora fallo. De Napoli, fuori dall’inquadratura, resta alle spalle dei protagonisti dell’azione offensiva, lasciando agire il cervello di Giannini.