Sguardi pessimisti..
Il blog Schumpeter dell’Economist ci ricorda che l’economista eponimo aveva idee piuttosto pessimiste sul futuro del capitalismo. Le sue preoccupazioni sono oggi tanto più attuali: gli incentivi economici favoriscono l’immobilismo, i grandi gruppi cercano rendite di posizione con il favore della regolamentazione statale, e gli azionisti preferiscono manager che garantiscano rendimenti sicuri invece di andare a caccia di opportunità redditizie ma rischiose. Anche i processi democratici stanno diventando sempre più disfunzionali: i cittadini danno la priorità a obiettivi immediati e tangibili più che a investimenti sul futuro, e i gruppi di interesse sono sempre più organizzati nel pilotare il sistema a proprio vantaggio. La conclusione – piuttosto preoccupante – è che se la stagnazione economica costituisce l’anticamera del populismo, assecondare la pancia degli elettori porta ad acuire il malessere dell’economia.
Su Social Europe l’economista Barry Eichengreen propone una riflessione a partire da L’età dell’incertezza, il famoso saggio di Galbraith del 1977 sulla fine della stabilità che aveva caratterizzato i venticinque anni successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Vista dal 2017, tuttavia, l’incertezza del 1977 fa quasi invidia: se Jimmy Carter non è stato il miglior presidente che gli USA abbiano avuto, almeno non ha rischiato di mandare all’aria gli equilibri globali come annuncia di voler fare Trump; nel ‘77 l’UE era in espansione e le prospettive di integrazione erano rosee, mentre oggi l’Unione mostra la corda e l’eurozona -lungi dall’attrarre nuovi membri- rischia di perdere pezzi e non sembra in grado di gestire le crisi ricorrenti. Infine, nel 1977 i paesi in via di sviluppo non avevano massa critica sufficiente per mettere a rischio l’economia globale, mentre oggi quello che succede in Cina, Brazile o Turchia ha importanti ripercussioni su tutto il mondo.
.. e sguardi ottimisti
Secondo Zoe Williams sul Guardian per riguadagnare una visione ottimista del futuro occorre mettersi al lavoro su meccanismi per fronteggiare complessivamente le diverse crisi. Il primo nodo da affrontare è la crisi della democrazia: secondo il World Economic Forum solo il 25% dei nati negli Ottanta ritiene “essenziale” vivere in un sistema democratico – un dato scoraggiante se confrontato con il 70% dei nati negli anni Trenta. Se la generale amnesia degli orrori dei regimi autoritari e non democratici è preoccupante, il vero problema è che la politica è sempre più percepita come un’attività per cacciatori di rendite di professione, interessati al mantenimento dello status quo e distanti dalla popolazione reale. Per superare questa crisi occorre convincersi del fatto che il momento del voto non è che l’atto conclusivo dei processi deliberativi, che per avere senso devono essere partecipati nella loro interezza.
Giorgio Clarotti su Euractiv propone un’opportunità di riforma della democrazia europea all’indomani della Brexit. I settantatre seggi del Parlamento Europeo riservati alla Gran Bretagna potrebbero essere riassegnati al primo vero gruppo di parlamentari europei, votati da tutti i cittadini dell’Unione da un’unica lista elettorale. Si tratta di una riforma di facile implementazione: basterebbe consentire a ogni cittadino di esprimere due voti, uno per la rappresentanza “nazionale” e uno per il candidato “federale”. Questo porterebbe a campagne elettorali transnazionali e, auspicabilmente, alla trasformazione dei partiti europei in vere strutture politiche.
Il liberalismo e le sue alternative
Secondo Graeme Archer (Conservativehome), per la maggior parte delle persone sono più importanti valori e appartenenze legati alle comunità locali che non alla globalizzazione e all’universalismo cari ai liberals: l’idea è che la nostra attenzione si concentra su quanto ci circonda e sentiamo vicino, molto più che su fatti e persone lontani. Secondo Archer la difficoltà ad accettare questo dato di fatto da parte delle élites di stampo liberal testimonierebbe la distanza dal pensiero della “gente” comune. A rafforzare questa distanza contribuisce la convinzione dei liberal che i propri valori siano universalmente condivisi. Di opinione opposta Jonathan Freedland sul Guardian: non esiste alcuna spaccatura tra i liberal e la “gente”; basta guardare al voto su Brexit – in cui il 48% dei britannici ha votato per il Remain – o agli Stati Uniti, nei quali nonostante la vittoria di Trump la maggior parte degli elettori si è espressa a favore di Clinton. L’appellativo di liberal, conclude Freedland, dovrebbe essere portato con orgoglio da chi difende i principi di tolleranza, democrazia e valori umani.
Leggi anche:
Economists have completely failed us. They’re no better than Mystic Meg – The Guardian
How Bad Can It Get? Prepare For Economic Nationalism – Social Europe
No Intergenerational Equity For Millennials – Social Europe
Putin’s approach to the West should encourage us to reflect on the nature of our own democracy – EUROPP