Risolvere i problemi dell’economia Europea: qual è la priorità?
Le preoccupazioni sul futuro dell’Unione Europea sono al centro del dibattito intellettuale di questa settimana. Dalle pagine di Die Welt, Dorothea Siems critica la politica monetaria della BCE, in particolare la politica dei bassi tassi di interesse di Mario Draghi, che secondo l’autrice non farebbe che aumentare le fratture sul continente, invece di unificarlo. È illusorio pensare che tassi di interesse bassi possano di per sé portare a una ripresa degli investimenti: l’unica vera soluzione alla difficile situazione economica europea sarebbe favorire le riforme strutturali nei paesi colpiti dalla crisi.
L’Economist si sofferma sul disavanzo di bilancia commerciale di Berlino, motivo di preoccupazione per il resto d’Europa. L’Economist si è espresso criticamente sulle recenti dichiarazioni dell’amministrazione Trump che alludevano a presunte manipolazioni valutarie da parte della Germania: ciononostante, la ricetta proposta dalla redazione del settimanale prevede un aumento degli investimenti in Germania, o una riduzione dell’imposta sul valore aggiunto affiancata da un aumento delle tasse sul lavoro, in modo da ridurre i disavanzi di bilancia commerciale del paese.
La sfida più importante per l’Europa, secondo Jan Kubik del Guardian, è il disfacimento delle democrazie orientali. L’Europa orientale è caratterizzata da tre forze principali: “una classe politica disgiunta dalla realtà, una popolazione insofferente e arrabbiata, e demagoghi carismatici”. Kubik sostiene che la rabbia incanalata dai partiti populisti può arrivare a minare strutture istituzionali deboli, e soprattutto che l’eventuale sconfitta delle forze populiste potrebbe non essere sufficiente per restaurare un ordine liberale, tanto più se le prime sono riuscite nel loro intento di convincere che problemi complessi possano avere soluzioni facili e veloci.
Elezioni (corrotte) in Francia: un punto di svolta per l’Ue?
Martin Kettle, sul Guardian, sostiene che la vittoria di Emmanuel Macron alle prossime elezioni presidenziali francesi possa rappresentare un punto di svolta per l’Unione europea. Kettle evidenzia la volontà di Macron di impegnarsi per “un’eurozona più libera dalle politiche di austerità”, e nota, inoltre, che il suo slancio riformista ha delle sembianze “anglosassoni”. Macron sarebbe dunque la migliore risposta a coloro che prevedono un effetto domino sulla politica europea, dopo un 2016 segnato dal referendum sulla Brexit e dall’elezione di Trump alla Casa Bianca.
La corsa elettorale francese è al centro dell’attenzione anche del New York Times. Riflettendo sulla recente vicenda di Fillon, e sul coinvolgimento di Nicolas Sarkozy in un sistema di finanziamento illecito, il NYT definisce “marcio” l’attuale panorama politico francese, il che spiegherebbe l’accresciuta preferenza per Emmanuel Macron e Benoît Hamon da parte della popolazione, nauseata dal “comportamento egoista della classe politica nazionale”.
Partito Laburista e Podemos: è tutta una questione di leadership
La scorsa settimana la Camera dei Comuni ha approvato l’articolo 50 senza significativi emendamenti, aprendo la strada all’avvio dei negoziati sulla Brexit tra il Regno Unito e l’Ue. La spaccatura creatasi all’interno del partito laburista in occasione del voto sull’articolo 50 ha sollevato ancora una volta la questione della leadership. Secondo Matthew d’Ancona, la leadership di Corbyn è agli sgoccioli: ciononostante il fronte centrista del Labour non sembra essere pronto ad affrontare la sfida di guidare il partito nei prossimi anni. D’altro canto, Julian Coman evidenzia come il divario tra i deputati laburisti e i loro elettori si stia allargando, in particolar modo dopo che il voto sull’articolo 50 ha messo numerosi deputati in difficoltà con i propri elettori (quelli che hanno votato “Leave” nel referendum di giugno).
Sull’Independent, John Rentoul scrive che l’ex Ministro ombra del commercio Clive Lewis potrebbe essere il candidato adatto a prendere il posto di Corbyn. Lewis ha approvato l’articolo 50 in fase di seconda lettura, ma ha votato contro in terza lettura dopo aver constatato l’incapacità dei laburisti di apportare cambiamenti significativi al progetto di legge.
L’Economist si concentra invece sulla lotta per la leadership del partito spagnolo Podemos. Il giornale inglese sostiene che dopo il successo di Pablo Iglesias nella seconda assemblea nazionale, il partito si sia ulteriormente spostato a sinistra, il che non impedirà comunque ad altri giovani di unirsi al movimento.
Grexit: una possibilità per nessuno
Su Carnegie Europe, Yannos Papantoniou segnala il ritorno di un possibile scenario di Grexit. Secondo Papantoniou, se i creditori della Grecia si concentrano eccessivamente sulle misure di austerità, al contempo negli ultimi dieci anni il governo di Atene ha inanellato una serie infinita di errori politici. Grexit comincia a essere vista come un’opzione interessante presso i circoli conservatori europei: Papantoniou mette in guardia sui rischi di un simile scenario, che provocherebbe ulteriori shock all’economia già debole del paese. Inutile dire che ne deriverebbe una forte instabilità politica e sociale, con conseguente aumento dei rischi geopolitici, proprio “in un momento in cui la Russia e la Turchia pongono una sfida concreta alla sicurezza europea e la questione dei rifugiati è ancora un’emergenza”.
Una “malattia olandese” contagiosa?
L’Economist si concentra sull’avvio della campagna elettorale nazionale nei Paesi Bassi ed in particolare sul rafforzamento del Partito per la Libertà (PVV) di Geert Wilders, in controtendenza rispetto alla tradizione democratica del paese. Già in passato la politica olandese ha spesso rappresentato una sorta di “campanello d’allarme per il Nord Europa”. Di conseguenza, il probabile successo del nazionalista PVV potrebbe dare il via ad un’ondata di nazionalismo europeo nel 2017.
Daphne Halikiopoulou su EUROPP assume una prospettiva più teorica rispetto al populismo e al nazionalismo, sostenendo che, a dispetto dell’abile retorica dei leader nazionalisti contemporanei, il successo dei loro partiti non è da attribuire al loro far leva sul nazionalismo in sè e per sè, ma è da rintracciare nel senso di insicurezza economica e politica, che non coinvolge tanto il divario tra “ricchi” e “poveri”, quanto le aspettative e lo status economico di vasti gruppi sociali.
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Traduzione dall’inglese a cura di Elisa Carrettoni