Ci sono argomenti che sarebbe bene considerare attentamente prima di affrontarli. Argomenti così delicati che vanno trattati con testa ed empatia, tenendo presente il fatto che spesso, degli altri, noi sappiamo pochissimo. Il viaggio in Svizzera di Fabiano Antonani è uno di questi.
Su Finzioni diciamo che la letteratura è noiosa e che i libri non sono importanti. Ma le cose che sono state dette e scritte in questi giorni in materia di suicidio assistito potrebbero portare a ricalibrare, almeno per la durata di questa pagina, la provocazione dello slogan finzionico. Pare, infatti, che in fondo i libri siano importanti, almeno un pochino. Come byline, siamo d’accordo, è molto meno incisiva che l’originale, ma forse più adatta a questi giorni.
I libri servono. Solo un pochino, perché probabilmente neanche la lettura di tutte le pagine mai scritte potrebbe aiutarci a trovare le risposte sulla vita e la morte di cui, in certi casi, avremmo bisogno. Ma comunque leggere è importante, almeno un pochino. Perché è quasi sempre la lettura che ci confronta con certe domande, le grandi domande sulla vita e la morte. E perché è la lettura che ci aiuta a sviluppare empatia e a capire che la visione del mondo di cui siamo portatori e alla quale ci appigliamo nel rispondere alle grandi domande non è l’unica visione possibile, non è la più valida, non deve essere monolitica.
Per i più diligenti, è già il programma scolastico a introdurre l’idea che la vita possa non essere necessariamente, per tutti, un dono.
In alcune scuole gli studenti hanno appena dodici anni quando per la prima volta “fanno” – verbo che tipicamente accompagna i compiti e le materie – Leopardi. A quell’età il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia è prima di tutto un malloppo infinito da copiare a mano sul quaderno; solo in secondo luogo il manifesto di una visione del mondo. Sono gli anni delle prime cotte, delle dediche sul diario, dei Pokémon e di Hello Kitty. Sul quaderno si copia Leopardi, però, e anche se gli studenti non ci devono ancora fare i conti fino in fondo, iniziano a leggere cose come “la vita è sventura” e “funesto è a chi nasce il dì natale”.
Poi arriva Montale. Si è ormai adolescenti, alcuni incompresi, molti alle prese con i primi dubbi importanti, quando le sue poesie vengono studiate, analizzate e parafrasate per la prima volta e sembrano avere molto più senso che il prolisso lagnarsi leopardiano (Giacomo, perdonami, avevo dodici anni e la maglietta di Hello Kitty). Anche Montale, in alcune delle sue opere più famose, ci parla di sentimenti che non sono gioia, bensì male di vivere, di vita e travaglio. In una poesia, Difficile è credere, ci dice che:
“Difficile è credere
che sia un dono la vita,
quando si trascina una
stanca esistenza e il vivere
d’ora in ora ci tortura;”.
Tutto questo, se si è stati attenti in classe. Il Nobel di quest’anno, però, ci insegna che anche le canzoni sono letteratura. Per chi era distratto, interviene quindi la chitarra: quattro accordi e ci si trova a pronunciare parole dilanianti, quelle di Johnny Cash nella sua celebre versione del pezzo dei Nine Inch Nails:
“I hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that’s real”.
Nell’universo musicale c’è tutto: c’è chi canticchia Because I’m happy, c’è chi racconta della sensazione famigliare data dall’ago che fora la pelle. Alla radio passa tutto e noi ci abituiamo così ad ascoltare le diverse visioni della vita.
Lasciati i banchi di scuola e i falò sulla spiaggia, entriamo nell’età adulta e facciamo una passeggiata in libreria. Di recente sono arrivati in Italia due romanzi di scrittrici di lingua inglese. Hanno in comune il fatto che, per alcuni loro personaggi, la vita è tutt’altro che un dono meraviglioso. Mentre di questi vengono illustrate in maniera viva e convincente le sofferenze, attraverso altri personaggi i due romanzi riescono a convogliare altrettanto meravigliosamente sentimenti ed esperienza come la passione, la gentilezza e l’altruismo.
Il primo di questi due romanzi recenti è I miei piccoli dispiaceri di Miriam Toews (Marcos y Marcos). Ci sono dentro il suicidio assistito, inclusivo di viaggio in Svizzera, e tanto amore. I miei piccoli dispiaceri racconta la storia di due sorelle. La maggiore, Elf, parrebbe avere tutto, soprattutto fascino da vendere, ma non vuole vivere. La minore, Yoli, è incasinatissima e a tratti fatica a gestire la propria esistenza, ma l’idea di privarsi della vita è a lei totalmente estranea. Sono due modi di sentire che si trovano a scontrarsi quando Elfrieda viene ricoverata in ospedale in seguito all’ennesimo tentativo di suicidio.
La magia che riesce a fare Miriam Toews è che, mentre si leggono le sue pagine, mai ci si chiede chi delle due sorelle abbia ragione. Si sente. Si sente l’affanno di Yoli nel cercare di venire a capo dei suoi casini e si sente la sofferenza di Elf per essere incollata ad una vita che le pesa soltanto.
L’empatia è uno strumento essenziale. Capire o domandarsi come possano sentirsi gli altri aiuta a non sparare giudizi arbitrari, a non muoversi come elefanti in negozi di cristallo, a non parlare di suicidio assistito citando Hitler nella convinzione di fare una provocazione maliziosa.
Una vita come tante, di Hana Yanagihara (Sellerio) è il secondo dei due romanzi recenti ed è un’opera che come pochi altre sa stimolare il muscolo dell’empatia. Racconta la storia di quattro compagni di scuola, Jude, JB, Malcolm e Willem, dagli anni del college agli anni della maturità. Come spesso accade, i protagonisti si avvicinano e si allontano a più riprese con il passare del tempo, ma restano comunque uniti dalla volontà di proteggere Jude dai suoi fantasmi.
Proprio il personaggio di Jude porta il lettore a scontrarsi faccia a faccia con tante cose: quanto la vita possa essere intollerabile, come sia possibile detestare se stessi, volersi fare male, anche senza necessariamente volere morire. Ma sono forti e chiare anche le voci degli altri personaggi, la loro gentilezza, la loro accettazione. È un sentire così forte che a volte fa paura, mentre si leggono le pagine della Yanagihara. Eppure, sentire così tanto chiaramente la vita di qualcun altro ha anche una forza redentrice.
Sono solo alcuni testi: due romanzi, una canzone, due poesie. Ma la letteratura è piena di voglia di vivere come è piena di desiderio di morte. Leggere è importante almeno un pochino, se non per capire cosa sia giusto, almeno per riuscire sentire come forze così grandi, la voglia di vita e il desiderio di morte, possano esistere, coesistere e scontrarsi.