51,3% Sì, contro 48,7% No. Così, salvo sorprese o ricorsi, si è conclusa la grande battaglia del referendum costituzionale turco. Una vittoria stretta nei numeri, ma enorme nel’impatto, per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Sufficiente, ad esempio, per assumere i poteri esecutivo, giudiziario e legislativo, senza più controlli da parte del Parlamento e per essere rieletto per altri due termini consecutivi di cinque anni ciascuno, più altri cinque, in prelazione. Abbastanza per far gridare all’autocrazia e alla fine dell’utopia kemalista di uno stato laico e in avvicinamento all’Europa. Un po’ meno, tuttavia, per ridare smalto e autorevolezza a Erdogan nello scacchiere internazionale. Un boomerang, addirittura, se si considera che proprio il Presidente è l’incarnazione di una linea di politica estera che sta conducendo la Turchia all’irrilevanza, se non addirittura all’isolamento.
Andiamo con ordine: da quando Ankara, in questi ultimi anni di presidenza Erdogan, ha scelto di allontanarsi sempre più dall’Occidente suo alleato, la sua principale arma di ricatto è stata la minaccia di avvicinarsi per reazione a Mosca. Specularmente la migliore carta di scambio che Ankara ha finora avuto col Cremlino è stata proprio ventilare la prospettiva di assecondare più gli interessi russi che quelli occidentali nelle sue aree di influenza. Con l’amministrazione Obama questo gioco ha, almeno in parte, funzionato. Ma con Trump è cambiato tutto. Ora che Mosca e Washington – nonostante il raid di Idlib, le successive tensioni – sembrano vicine come mai prima specialmente nella partita mediorientale che è quella più importante per la Turchia, Erdogan si trova improvvisamente con delle pessime carte in mano.
Ricostruiamo sinteticamente le mosse della Turchia di Erdogan in Siria. Poco dopo lo scoppio delle proteste nel 2011-12 Ankara si schiera coi ribelli e negli anni successivi aumenta sempre più il suo impegno a loro sostegno, attirandosi anche accuse di aver sfruttato l’Isis in funzione anti-Assad per un certo periodo. Il regime è in difficoltà ma nel settembre 2015 l’intervento della Russia cambia le carte in tavola. Mosca e Ankara si scontrano durissimamente quando l’aviazione turca abbatte un cacciabombardiere russo accusato di aver sconfinato, a novembre 2015. Seguono sanzioni e minacce.
Messo alle strette Erdogan ingoia il boccone amaro e torna da Putin col cappello in mano, pronto a rinunciare alla cacciata di Assad pur di trovare un accordo sulla Siria.
La situazione si normalizza con il progressivo disgregarsi dei sogni di gloria di Erdogan in Siria. Il regime di Assad sembra messo in sicurezza dall’intervento russo e quel che è peggio i curdi siriani, vero nemico di Ankara in quanto ritenuti legati al Pkk curdo-turco (per la Turchia, ma anche per Usa e Ue un’organizzazione terroristica), stanno liberando i propri territori – che corrono lungo il confine turco – dalla presenza dell’Isis dimostrando un’efficacia molto superiore a quella dei ribelli armati e finanziati dalla Turchia.
Messo alle strette Erdogan ingoia il boccone amaro e torna da Putin col cappello in mano, pronto a rinunciare alla cacciata di Assad pur di trovare un accordo sulla Siria. Le relazioni tra i due migliorano ancor di più dopo il fallito golpe di luglio 2016, quando Putin si mostra molto più vicino al presidente turco – secondo le parole di quest’ultimo – di quanto non facciano invece i suoi alleati occidentali. L’accordo sulla Siria viene trovato a fine estate 2016: ai ribelli filo-turchi e alla Turchia viene concesso dalla Russia – che ha il controllo aereo della Siria – di compiere l’operazione “Euphrates Shield”, con cui si libera l’ultimo tratto di confine siro-turco dall’Isis e soprattutto si inserisce un cuneo (che arriva fino alla cittadina di Al Bab, a lungo contesa) tra i cantoni orientali curdi e quello occidentale, impedendo l’unificazione del Rojava (il Kurdistan siriano). In cambio Ankara abbandona il proposito di causare la caduta di Assad e rallenta l’aiuto ai ribelli, in particolare nelle ultime fasi della battaglia di Aleppo, poi vinta dal regime a dicembre 2016.
E arriviamo alle ultime settimane, quando la Turchia si trova – non del tutto imprevedibilmente – sotto scacco. Una volta concesso a Erdogan il cuneo tra territori curdi, Putin manovra abilmente – facendo sponda tanto su Assad quanto sui curdi stessi – per sigillare la sacca conquistata dai ribelli filo-turchi e per impedire qualsiasi ulteriore loro avanzamento. Si rafforza in questo contesto la cooperazione curdo-russa. Nel frattempo il neo-presidente Trump inizia a mandare mezzi, uomini e supporto ai curdi siriani e ai loro alleati (SDF) in vista dell’offensiva su Raqqa, la capitale siriana del Califfato. Questa era una partita in cui Erdogan avrebbe voluto disperatamente far entrare la Turchia, ma non ha trovato nessuno spiraglio. Al contrario, buona parte degli aiuti vanno ai suoi peggiori nemici.
Operando a Raqqa, che è al di fuori dei territori tradizionalmente curdi di Siria, le SDF si stanno infatti accreditando come una forza nazionale, composta anche da arabi oltre che da curdi. Oltretutto, come già si diceva, più efficace di qualsiasi altra forza di fanteria locale al momento operativa in Siria. E qui scatta l’offensiva tattica dei curdi: adesso, una volta terminate le operazioni a Raqqa. si stanno offrendo come possibile forza per la liberazione dai terroristi della provincia di Idlib, proprio quella vittima del raid a base di armi chimiche di Bashar el Assad.
Ma chi c’è a Idlib? Qui si sono concentrati ribelli di varie sigle, da quelle legate alla Turchia ai qaedisti dell’ex Al Nousra. Putin, per mettere in sicurezza Assad, ha ovviamente interesse a neutralizzare quella sacca e vista la rilevante presenza di qaedisti anche Trump sembra intenzionato a propiziare una “pulizia” della zona. L’offerta delle SDF è dunque allettante.
Se i ribelli perdessero la sacca di Idlib, per la Turchia sarebbe probabilmente scacco matto. Qui c’è l’ultimo lembo di territorio siriano – esclusa la sacca chiusa a nord concessa da Putin durante l’operazione Euphrate’s Shield – controllato dai ribelli che confina con la Turchia. Tutto il resto è in mano ai curdi
L’improvvido attacco siriano ha temporaneamente congelato la situazione: ma se i ribelli perdessero la sacca di Idlib, per la Turchia sarebbe probabilmente scacco matto. Qui c’è l’ultimo lembo di territorio siriano – esclusa la sacca chiusa a nord concessa da Putin durante l’operazione Euphrate’s Shield – controllato dai ribelli che confina con la Turchia. Tutto il resto è in mano ai curdi o, in misura minore, al regime. Se i ribelli venissero cancellati dall’area di Idlib, Ankara non avrebbe più modo di influire direttamente nella partita siriana.
A Erdogan, insomma, restano in mano poche opzioni e nessuna vincente. Può sperare di impedire che siano i curdi a liberare Idlib, cercando un accordo con Assad, russi e americani. Ma a quel punto dovrebbe offrire qualcosa in cambio e per farlo dovrebbe perdere la faccia con la ribellione siriana e con le opinioni pubbliche arabe, dovendo spingere i ribelli di Idlib a spaccarsi tra “presentabili” e non, e a “vendersi” sostanzialmente al regime. Non è detto che possa farlo. Può sperare nella sponda di Assad, nel comune interesse a soffocare l’indipendentismo curdo, ma cercare apertamente accordi col dittatore che combatte contro i ribelli sostenuti da Ankara sarebbe politicamente impercorribile. Del resto è difficile, visto il bilanciamento di forze militari in Siria, ipotizzare colpi di testa da parte di Erdogan, col rischio di esporsi alle ritorsioni della Russia senza avere più la sponda dell’Occidente.
La migliore speranza per Erdogan è che Trump cambi idea – o che gli Usa cambino presidente – in materia di Medio Oriente e di relazioni con la Russia. Se le due superpotenze tornassero infatti a confrontarsi la Turchia potrebbe riguadagnare peso tattico nella partita, e cercare di propiziare i propri interessi avvicinandosi all’uno o all’altro a seconda della contingenza. Ma se la comunione di intenti, anche a grandi linee, tra Mosca e Washington dovesse continuare l’esito della partita siriana per la Turchia sembra già scontato, e per Erdogan il tempo in aggiunta che il referendum gli consentirà di passare al potere, gli servirà per pagare il conto salato di tutte le scommesse perse e le mosse sbagliate degli ultimi cinque anni.