L’insopportabile paraculismo dei padri che incitano i figli alla rivoluzione

La letteratura e i film si sono riempiti di padri che invitano i figli a ribellarsi. Ma è tutta una strategia per salvare se stessi

Martin Vorel

Siamo a cent’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, cinquanta dalla prima pubblicazione italiana del Libretto Rosso di Mao e quaranta dal Settantasette: diceva Dolores Prato, scrittrice, che gli anniversari e le rievocazioni celebrative sono l’occasione perfetta per infiocchettare di balle la storia, ma oggi la nostalgia per i dissidenti che furono non è semplicemente funzionale alla retorica della commemorazione, anche perché dura da prima del 2017. Da contrordine, la ribellione s’è fatta ordine; da parricidio, imperio genitoriale; da inno per un mondo migliore, refrain dei nevrotici metropolitani; da propaganda, campagna di marketing.

Tra i libri più venduti in Italia c’è da settimane “Storie di bambine ribelli”: una raccolta di 100 storie di donne che hanno preferito l’avventura alla favola. La Disney disegna principesse cacciatrici che non hanno alcuna intenzione di sposarsi. Le pubblicità di profumi sono manifesti contro l’omologazione e al posto di gnocche fatali, piazzano gnocche schizofreniche che mandano all’aria le convenzioni mondane. I diplomatici scrivono pamphlet sull’importanza di indignarsi (“Indignatevi!”, Stéphane Hessel, Add Editore). Gli scrittori finiscono sotto processo per istigazione alla violenza (Erri De Luca, poi assolto con formula piena, nel caso No tav). La Rai sforna fiction sugli anni Sessanta: l’ultima, che ha esordito martedì scorso su Raiuno, “Di padre in figlia”, racconta tre donne che rovesciano l’autorità di un padre padrone (veneto e non terrone, stavolta). Non molte settimane fa, sempre la Rai ci ha propinato “C’era una volta Studio Uno”, anche quella confezionata per magnificare gli anni della fantasia al potere, dello sgretolamento dell’autorità, dei figli che si svincolano dai padri e li rifiutano. I figli di quegli anni sono poi diventati padri e sappiamo con quanta insistenza si siano impegnati a invitare la prole a ribellarsi, scioperare, manifestare, non lasciarsi omologare, intorpidire, ammuffire, rassegnare. È un tema di cui si è discusso parecchio, questo inedito generazionale per cui, per la prima volta nella storia, padri e figli non sono in lotta gli uni contro gli altri, ma discutono di una possibile alleanza, sobillata dai tutori e scansata dai protetti.

Naturalmente, la fase “ragazzi ribellatevi” non ha attecchito (lo hanno detto, scritto, urlato in tantissimi: Alfredo Reichlin, su l’Unità, 25 novembre 2010; Dario Fo ai maturandi; Patti Smith al Giffoni festival del 2012; Margherita Hack nel libro intervista “L’anima della terra vista dalle stelle” del 2011; Enrico Mentana al festival del giornalismo di due anni fa: Claudio Baglioni – che ha aggiunto “fate un favore ai vostri genitori” – in un suo libro di qualche anno fa; persino James Batthew Barrey, il padre di Peter Pan, in un discorso agli studenti dell’Università di Saint Andrews – piena età vittoriana -, disse loro “coraggio, ribellatevi un po’!”).

Come può darsi una rivoluzione contro un potere che la incita? Il solo atto sovversivo che resta è ignorare l’invito e sprofondare nel divano. L’atarassia

È rimasto un moto nostalgico degli ex sessantottini, così testardamente convinti di essere stati i primi a mostrare le chiappe a mamma, papà, Stato e padroni da aver liquidato qualsiasi sovversione che non fosse simile alla loro. Le “lettere a mio figlio” (sul ’68 di Mario Capanna, sulla necessità di lasciare l’Italia di Gelli e su quella di alzarsi dal divano – Gli sdraiati – di Michele Serra) non hanno rappresentato nient’altro che un’abilitazione ombelicale di loro stessi, funzionale al mantenimento dello status quo: strategia che aziende e copywriter stanno ricalcando con grande maestria. Si pensi alla Silicon Valley: parte del welfare aziendale che lì si sperimenta è indirizzato a fidelizzare i dipendenti convincendoli di lavorare per colossi che stanno rivoluzionando il mondo del lavoro e quello dei diritti umani. A Google non si lavora semplicemente per Google, ma pure per consegnare al mondo un futuro migliore, rivoluzionato. Non con lo sciopero, ma con il lavoro si migliora il destino dell’umanità: i millennial ci credono, i giovanilisti no. Ed è meno distopico e distante di quello che sembra.

Contrariamente a ciò che si crede, il giovanilismo non è un’invenzione di Renzi, ma degli anni Sessanta/Settanta: lo ha spiegato perfettamente Bruno Giurato su questo giornale, raccontando il libro di Paradisi “Un’estate invincibile. La giovinezza nella società degli eterni adolescenti” (Bietti, 2016). L’ex dissidente degli anni Settanta invita alla rivoluzione, dal suo scranno, il precario millennial e gli si posiziona accanto, di modo che al millennial sia impossibile rifiutarlo. Come può darsi una rivoluzione contro un potere che la incita? Il solo atto sovversivo che resta è ignorare l’invito e sprofondare nel divano. L’atarassia. Non hanno consentito, questi ex figli adesso padri e nonni, che si andasse contro di loro. «Alle primarie votai Bersani. Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto votare contro me stesso, cioè per Renzi», ha detto Michele Serra al Foglio, intervistato da Salvatore Merlo, lo scorso settembre. Due anni fa, all’indomani dell’uscita di Pippo Civati dal Pd, Serra gli aveva dedicato la sua Amaca: «Spiegaci come si fa a ribellarsi in molti, rimanendo popolo, rimanendo massa, e giuro che ti voto». Gli confessava di essere sempre stato «un tipico italiano di mezzo, incapace di ribellarsi al presente», di aver votato sempre per l’establishment, di aver imparato ad «accettare e perfino rispettare la mediocrità della democrazia». Quella resa alla mediocrità è un’ammissione personale che sconfessa una generazione intera e ci aiuta a comprendere per quale ragione il Settantasette e il Sessantotto sono un immaginario che soffoca e vanifica il resto, sebbene tanto il Maggio Francese quanto OccupyWallStreet siano state fiammate.

L’esempio virtuoso non è Enrico Mentana che, al festival del giornalismo, litiga con una neolaureata in filosofia che gli si oppone, dicendogli che scendere in piazza non serve a niente. Ma quello del professore universitario che nel film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana dice allo studente “Ragazzo, io sono uno dei dinosauri da distruggere”

«Ti chiedo scusa se non è lo stesso di tanti anni fa, apro il giornale e c’è Papa Francesco e il Frosinone in serie A»: è un verso di una canzone di Calcutta (i nuovi cantautori italiani sono uno più bravo dell’altro, uno più lucido dell’altro, se solo gli editorialisti prestassero loro attenzione capirebbero qualcosa di più dei ragazzi che si limitano a liquidare come amorfi fanciullini inebetiti da Instagram, per non parlare del fatto che le Fiction Rai preferiscono andare sul sicuro con Storia di un impiegato di De Andrè: è stato già un miracolo che Lo Stato Sociale sia finito ospite di “Che tempo che fa”, scatenando peraltro polemiche dei fan, probabilmente – e legittimamente – preoccupati dalla cooptazione della Rai, che è riuscita a rincoglionire la Gialappa’s Band, figuriamoci cosa potrebbe fare a un gruppetto indie). Calcutta, in quel verso, fotografa perfettamente le ragioni del blocco che impedisce una reazione di disobbedienza complessa e articolata: il potere ha oggi un volto amico, pop, fratellone. Il Papa sta sulla copertina del Rolling Stones, le periferie si gentrificano, mamma e papà portano i termos col caffè ai figli che occupano la scuola o vanno a riprenderli per le orecchie prima che arrivi la polizia (è successo in un liceo scientifico dei Parioli, a Roma, qualche mese fa: Annalena Benini sottolineò sagacemente che “anche questa volta i genitori erano decisi a rubare la scena ai figli: è faticosa la vita di chi decide di divorare i propri figli”). Joel Stein ha scritto che «è difficile abbracciare una controcultura quando non c’è una cultura»: Mattia Ferraresi lo riportava in un articolo di qualche tempo fa che riassumeva l’ostilità verso i millennial, considerati incapaci di ribellarsi perché “sfilacciati, provvisori, viziati, superficiali” e, appunto, incolti. Stein, però, probabilmente confondeva cultura con ideologia: lo stesso tragico errore che fece naufragare il Settantasette e che, ancora oggi, impedisce agli osservatori sessanta/settantenni di riconoscere ai giovani quantomeno di essere immuni a quell’errore. Se sia sufficiente questa immunità a risvegliare il dissenso, a riaccendere il desiderio di partecipazione civile, civica, politica, umana alla storia di questo presente, è una domanda ancora iscritta dentro il paternalismo per cui si riconosce l’apporto di una generazione al proprio tempo solo nell’adesione a un modello pregresso. «Bisogna avere l’umiltà di accettare che le cose nuove non ti prevedono», ha detto Serra in quell’intervista al Foglio. Un padre che invita il figlio a fare la rivoluzione, inibisce quella più importante: quella contro di lui. In questo modo, salva il suo posto.

Quasi quasi è meglio uno sdraiato di una ragazzina che mostra il dito medio alla televisione mentre Madonna, dal palco, urla di (letterale) “mandare a fare in culo” il presidente degli Stati Uniti: perché Madonna resta Madonna e la ragazzina un suo burattino

L’esempio virtuoso non è Enrico Mentana che, al festival del giornalismo, litiga con una neolaureata in filosofia che gli si oppone, dicendogli che scendere in piazza non serve a niente, ma quello del professore universitario che nel film “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana dice allo studente “Ragazzo, io sono uno dei dinosauri da distruggere”.

«Non è vero che alcune generazioni soffrono l’ingombro dei padri: gli spazi s’ inventano e non si ricevono per testamento», ha scritto Nadia Terranova, suggerendoci forse che se le piazze degli ex Sessantottini sono vuote, potrebbe voler dire che i loro figli si sono spostati nei parchi. Ed ha aggiunto: «La rivoluzione non si fa con il benestare dei carabinieri». Ecco, oggi, una rivoluzione globale, di massa, di precari uniti e ribelli, avrebbe non solo il benestare di nonni, padri, madri, ma pure di case editrici, multinazionali, senatori, editorialisti, produttori. Praticamente di tutto l’establishment. Quasi quasi è meglio uno sdraiato di una ragazzina che mostra il dito medio alla televisione mentre Madonna, dal palco, urla di (letterale) “mandare a fare in culo” il presidente degli Stati Uniti: perché Madonna resta Madonna e la ragazzina un suo burattino. Le rivoluzioni non s’ammaestrano ed educare alla rivoluzione – il maoismo dovrebbe avercelo insegnato – è pratica cara alle dittature o ai genitori progressisti, sui disastri dei quali Michel Houellebecq ha scritto il suo più grande capolavoro, “Le particelle elementari”, dove a un figlio viene proibita la normalità, la grande bandita dalle storie di donne eccezionali con cui le bambine italiane vengono mandate a sognare.

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