Un colpetto e il robottino Yumi si mette in moto. Un altro, a lavoro compiuto, e si ferma. Il lavoro, in questo caso, è stato prendere un pennarello, aprirlo e usarlo per disegnare su un foglio una decorazione che era appena stata creata con un pennino su tablet da due ragazzine. Auguri, faccina, e scarabocchio, tutto perfettamente riprodotto sul foglio che il robot ci sta porgendo. Siamo alla fiera di Parma, dove è in corso, fino al 25 maggio, l’edizione italiana di Sps Ipc Drives, l‘esposizione dell’automazione elettrica, sistemi e componenti organizzata da Messe Frankfurt. «Lo abbiamo programmato per guarnire le torte, che però non sono state portate in fiera per il troppo caldo». Basta questa frase di uno degli addetti allo stand dell’Abb, la multinazionale con base in Svizzera che porta da anni in giro Yumi come biglietto da visita, per far capire quanto i robot possano entrare nei lavori delle persone della porta accanto. D’altra parte lo stesso robot era già stato mostrato nel “Supermercato del futuro” di Coop dentro Expo 2015, in versione fruttivendolo, mentre infiniti video lo mostrano mentre prepara un Cuba Libre, dei pancake, aeroplanini di carta e così via, tutte cose che riescono grazie a una combinazione di sensori e visori di ultima generazione. Le scene più interessanti sono però quelle che mostrano il robot mentre lavora a stretto contatto con gli umani. Yumi è infatti uno dei più noti “cobot”, ossia i robot collaborativi che lavorano a stretto contatto con gli operai. Niente gabbie o vetri ma la condivisione di una postazione di lavoro, con il macchinario in grado di capire quando l’umano ha finito di compiere un’operazione. «Tutte le giunture sono protette da guarnizioni, non ci sono zone di rischio per chi lo tocca», spiegano allo stand. I bracci meccanici (due, indipendenti) possono essere spostati dagli operatori, le pinze si possono aprire o chiudere.
Un video dimostrativo del cobot Yumi
Abbiamo visto il “cobot“ Yumi fare Cuba Libre, aeroplanini di carta, pancake. Ma l’aspetto rivoluzionario è che lavora fianco a fianco con un operatore aspettando il suo turno e senza pericoli per il collega umano
Non è l’unico esemplare del suo genere esposto, in una fiera che quest’anno ha avuto nella parola “collaborazione” il suo tormentone. Tre sono i tipi di collaborazione che vengono illustrati nella mostra Know How 4.0, curata dal docente del Politecnico di Milano Giambattista Gruosso e allestita, come lo scorso anno, per far capire meglio ai piccoli imprenditori di che si parla quando si parla di Industria 4.0. C’è la collaborazione tra umani e robot: poco distante si vedevano all’opera un cobot dell’azienda già tedesca e ora cinese Kuka, realizzato in partnership con il produttore di sensori Sick e un robot cooperativo di Kawasaki Robotics con TiesseRobot e Mt Robot. C’è quella tra macchine e macchine, come i robot di Sew Eurodrive – uno sistema le caramelle su degli scaffali, uno gira su delle rotelle e gli porta i materiali, entrambi dialogano in modo che il primo capisca quando il carrello è pieno o vuoto -, che ricordano i celebri robottini Kiva che girano per i nuovi magazzini di Amazon.
E c’è la collaborazione tra il mondo digitale, cioè quello del software, e il mondo dell’automazione in senso stretto, cioè dei produttori di macchinari. È tutto l’ambito nel quale ricade la raccolta di dati che arrivano dalle macchine e che permettono, alla fonte attraverso i sensori e poi attraverso software di monitoraggio e analisi, di capire come stanno funzionando i macchinari, di effettuare una manutenzione “predittiva”, di riprogrammare velocemente gli stessi macchinari per produzioni molto personalizzate. In mostra viene fatto vedere il funzionamento in tempo reale di vere fabbriche e raccontato come la realtà aumentata per la manutenzione sia già una realtà. C’è il robot di Siemens che ha un gemello digitale: su uno schermo si mostrano tutti i movimenti del gemello fisico, cosa che permette di testare le produzioni e le manutenzioni. E c‘è il caso da manuale della tedesca Ifm, che con il suo sistema di sensori e software ha permesso di portare a nuova vita lo stabilimento Iveco di Suzzara (Mantova). L’investimento è stato di 150mila euro ed è stato ripagato in tre mesi, dice spiegano dal banchetto della società (6.000 dipendenti, di cui 600 sviluppatori di software). Altre installazioni, per le Pmi, possono essere anche minimali: «L’ultimo accordo chiuso è da 6mila euro. Molto dipende da quanti sensori si vogliono mettere e dal dettaglio sul funzionamento delle macchine che si vuole ottenere», aggiunge Carlo Di Nicola, System Sales Engineer della società.
La collaborazione tra aziende che fanno software e quelle che fanno macchine ha anche molto a che fare con il Piano Calenda. Se un macchinario si presenta come interconnesso può avere accesso all’incentivo dell‘iperammortamento che altrimenti sarebbe stato precluso
Questa collaborazione tra aziende che fanno software e quelle che fanno macchine, in realtà, non solo non si limita alla teoria e ha effetti pratici nello sviluppo di nuove linee produttivie. Ha anche molto a che fare con il Piano Calenda, vero protagonista della fiera di quest’anno. Se un macchinario si presenta come interconnesso – e come tale deve essere certificato da appositi enti, con costi che difficilmente scendono sotto i 5mila euro all’anno – può avere accesso all’incentivo dell‘iperammortamento al 250 per cento. La collaborazione, quindi, è spinta anche a livello istituzionale.
Il Piano Calenda è alla base della crescita degli ordinativi di macchinari italiani nel mercato italiano del 22 per cento nel primo trimestre dell’anno (dati Ucimu) e ha dato modo alla fiera di allargare gli spazi espositivi del 20 per cento rispetto allo scorso anno. Tuttavia, il Piano, che non prevede bandi ma incentivi automatici, è stato finora compreso nelle sue potenzialità solo in parte dalle piccole e medie imprese. È quello che emerge dai servizi che nella fiera sono stati messi a disposizione delle Pmi, sotto il cappello Pronto 4.0: lo sportello a cura di Anie Automazione (associazione che fa parte di Confindustria), focalizzato soprattutto sugli aspetti tecnici, e quello della società di consulenza Pwc. Grazie a un accordo con la fiera, le Pmi potevano prenotare un colloquio gratuito di un’ora con un consulente. A un desk venivano invece fornite risposte a quesiti spot relativi al piano. «I tavoli sono stati pieni tutto il giorno» dice Ivan Lavatelli, associate partner di Pwc. «Arrivano con dei piani di investimento precisi, ma spesso non hanno chiara la strategia – continua -. Quello che spieghiamo loro è che bisogna prima farsi alcune domande: si vuole diventare leader di costo, di differenziazione o di prontezza? Da questa scelta derivano investimenti molto diversi». Un investimento fatto senza visione è un’occasione persa? «Diciamo che si può anche avere un approccio per gradi, di tipo tattico e di breve periodo. Ma non è un caso che le grandi aziende abbiano tutte approfittato del piano per investimenti con ottica di medio-lungo termine», risponde.
«Le aziende arrivano con dei piani di investimento precisi, ma spesso non hanno chiara la strategia»
L’altro protagonista della fiera è tutto quello che gira attorno alla formazione. C’è bisogno di persone che sappiano programmare queste nuove macchine, farle funzionare e ripararle. E c’è bisogno che gli operai attualmente nelle fabbriche si riconvertano verso nuovi ruoli. Le sfide sono gigantesche e l’annuncio di Emmanuel Macron, neo-presidente francese, di investire 15 miliardi di euro nella formazione dà il senso della vastità dell’impresa. In mostra – in attesa di piani pubblici che in Italia latitano – si sono visti i progetti delle aziende, che hanno creato delle “academy’ interne e hanno imparato negli ultimi anni a cooperare in partnership con le università e con le scuole. La Comau di Torino (azienda che portò i robot industriali in Italia, con i primi impianti automatizzati per la Fiat) ha un progetto di alternanza scuola-lavoro considerato d‘eccellenza, che porta al rilascio di un patentino dopo un corso di 60 ore per gli studenti. Un piccolo robot industriale, chiamato E.Do, viene utilizzato per le scuole. Per ora viene fatto girare a scopo dimostrativo nella zona di Torino, ma il progetto è in fase di espansione. «Non viene utilizzato solo per mostrare come funziona la robotica, ma anche per spiegare materie come la matematica e l’arte», spiegano dallo stand di Comau. La società torinese ha poi realizzato un master di secondo livello in collaborazione con il Politecnico di Torino.
Un video dimostrativo del robot didattico E.Do della Comau
https://www.youtube.com/embed/cDbzeCe0QGs/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITEsperienze simili le hanno anche altri grandi nomi. Tre su tutti: la tedesca Pilz, che ha una “academy” rivolta a clienti (produttori di macchine e utilizzatori finali) e specializzata soprattutto sulla sicurezza. La Bosch è tra gli organizzatori, con il Politecnico di Milano e il consorzio Cefriel, di un “master di alto apprendistato” dedicato all’Industry 4.0. È un tipo di formazione nuova, in cui gli studenti sono assunti con un contratto di apprendistato di alta formazione di due anni, durante i quali si alternano le lezioni in aula e quelle in fabbrica. La Siemens, oltre a gestire un grosso centro di formazione a Piacenza (chiamato Tac), ha un vasto programma di formazione nelle scuole, sia per gli studenti sia per gli operatori. «Insieme con il Politecnico di Milano, polo di Piacenza, teniamo un corso al terzo anno di ingegneria meccanica, presso il nostro centro. Gli studenti mettono in pratica quello che anno imparato in teoria», spiegano dallo stand della società tedesca, che tra le altre cose organizza delle Olimpiadi dell’automazione rivolte agli studenti. L’elenco delle grandi aziende che stanno puntando decisamente sulla formazione dei nuovi lavoratori è però lungo e tra questi altri nomi di primo rilievo sono Cisco e Festo, ciascuna con le sue academy, mentre fuori dal mondo dei produttori c’è un nuovo mondo in movimento, che vede all’opera nomi che vanno dalla Tag Innovation School di Talent Garden a Quanta, nei cui centri gli operai sono formati attraverso un “virtual training” che permette loro di capire il funzionamento di 150 macchine, semplicemente stando dentro una vitual room.
L’altro protagonista della fiera è tutto quello che gira attorno alla formazione. C’è bisogno di persone che sappiano programmare queste nuove macchine, farle funzionare e ripararle. In attesa di piani pubblici che in Italia latitano, in mostra si sono visti i progetti delle aziende, che hanno creato delle “academy’ interne e hanno imparato negli ultimi anni a cooperare in partnership con le università e con le scuole